
FRA IRONIA, LUNGIMIRANZA E IMPERIALISMO: I CONFINI COLONIALI IN AFRICA IERI E OGGI
Nel 1885 i principali capi di Stato europei si riunirono a Berlino per una conferenza indetta dall’allora cancelliere Bismarck per decidere come spartirsi il continente africano. Quello che ne seguì fu lo Scramble for Africa – espressione inglese traducibile come “La spartizione dell’Africa” – ovvero la divisione del continente africano fra le varie potenze europee, fenomeno che durò fino al 1913 quando la quasi totalità del continente fu sotto controllo europeo – le uniche eccezioni furono Liberia ed Etiopia. Gli imperi coloniali a quel tempo si dividevano in tre grandi categorie: i ‘vecchi’ colonialisti come Spagna, Portogallo ed Olanda – i dominatori dell’epoca delle grandi scoperte geografiche del XV e XVI secolo – i due grandi imperi contemporanei ovvero Gran Bretagna e Francia, che dal XVII e dal XVIII secolo presero l’avvento sui ‘vecchi’ colonialisti e infine i ‘nuovi’ colonialisti, gli Stati che non avevano ancora un impero coloniale come Germania, Italia e Belgio.
Questo fenomeno è considerato dalla letteratura l’apice dell’Età dell’Imperialismo (1870-1914), ovvero quel momento storico in cui il Vecchio Continente estese la sua egemonia all’intero globo – comprendendo quindi Asia e Africa nelle sue conquiste. L’operazione diplomatica di Bismarck aveva in realtà l’intento di spostare l’attenzione delle potenze europee dal continente, in particolare Gran Bretagna e Francia, per potervi consolidare l’egemonia tedesca. Ma questa è un’altra storia. Vi è da dire però che la politica di potenza europea e l’equilibrio che vigeva in Europa erano fortemente minacciati dal militarismo tedesco, il quale cercava sgomitando a destra e a manca, di trovare il suo spazio. Il genio diplomatico di Bismarck tenne così, nonostante queste forze centrifughe, la pace nel continente. La fragilità di questa pace, tuttavia, iniziò a sgretolarsi sin dai primi anni del secolo successivo quando la politica navale tedesca e la fine dei territori da conquistare iniziarono una spirale di tensioni e scontri che sfociò nella Prima Guerra Mondiale.

Il mantra che caratterizzava questo periodo è “il commercio segue la bandiera” (Bagnato 2006, 54), ovvero che il controllo politico-militare di un territorio era necessario per stabilire relazioni commerciali esclusive. In precedenza, durante la creazione dei ‘vecchi’ imperi coloniali come quelli di Gran Bretagna e Francia, era vero il contrario: ne sono testimoni le Compagnie delle Indie, in particolare quella olandese e quella britannica. Antecedenti delle contemporanee multinazionali, queste erano vere e proprie estensioni dello Stato, ma allo stesso tempo enti privati. Tuttavia nel XIX secolo, complici i cambiamenti tecnologici nei trasporti e negli armamenti, gli Stati europei si lanciarono in un controllo effettivo – politico e non solo economico – del resto del mondo.
La conseguenza dello Scramble for Africa è evidente nella figura qui sotto, in soli 33 anni le potenze europee arrivarono a conquistare l’intero continente. Se questo non avvenne prima (per una trattazione estesa vedi Headrick, 2011) non fu per volontà europea ma piuttosto per due, insormontabili, problemi: le malattie proprie del continente africano, come la malaria, dimezzavano ogni spedizione europea – al contrario di quanto successo nelle Americhe – e la tecnologia militare africana rivaleggiava senza tanti problemi con quella europea. La mortalità delle truppe per le malattie era del 50% e solo l’uso del chinino su larga scala, verso il 1850, riuscì a ridurre la mortalità al 2% delle truppe. Invece, la supremazia militare europea era sugli oceani, dove i velieri e le loro bocche da fuoco spadroneggiavano ai quattro venti ma appena sbarcati, confrontati con i grandi spazi africani, gli europei si rendevano conto che una guerra di conquista del continente avrebbe richiesto secoli e una spesa pressoché tendente all’infinito: era impossibile. Inoltre, gli uomini che sarebbero serviti all’impresa non sarebbero stati sufficienti e, difatti, le ‘grandi battaglie coloniali’ dell’Età dell’Imperialismo furono combattute da manipoli di soldati contro grandi eserciti africani e, solamente grazie all’uso delle mitragliatrici e dei primi fucili a retrocarica, questi poterono vincere. L’unica eccezione, in questo caso, fu la colonia del Sud Africa che, tutt’oggi, è l’unica nazione africana ad avere una popolazione bianca indigena.
L’Africa divenne così dalla White Man’s Grave (la tomba dell’uomo bianco), così com’era stata conosciuta per almeno due secoli, a una delle tappe del White Man’s Burden (il fardello dell’uomo bianco), chiamato a “civilizzare i popoli barbari”.

Ma se l’imperialismo europeo portò la guerra su larga scala nel continente e soggiogò numerose popolazioni africane, l’idea edulcorata dell’onnipotenza europea sta – a ragion veduta e per rigore storico – pian piano sgretolandosi. Ad esempio, in testi ormai classici dell’africanistica come States and Power in Africa di Jeffrey Herbst si evidenzia come il controllo esercitato dagli europei sul territorio fosse marginale e avvenisse più attraverso la cooptazione dei capi locali piuttosto che su un vero e proprio ‘dominio’ delle varie società africane. Come a dire che conquistare qualche città e reclamare il possesso di un territorio mettendoci ‘la bandierina sopra’ era una cosa, mentre esercitare un controllo effettivo su tutta quell’area era tutt’altra faccenda. Se ieri la territorializzazione del potere statale era un problema per gli europei questa, come evidenziato da Herbst, lo è anche oggi per le élite africane. Inoltre, se le mappe che rappresentano l’occupazione europea dei territori africani mentono riguardo all’effettivo controllo del territorio, lo fanno anche i confini stabiliti durante lo Scramble.
Come evidenziato nella cartina sottostante che sovrappone i confini statali a quelli etnici, l’Africa è stata divisa a tavolino, con squadra e righello, durante questo periodo. Esemplare è l’affermazione di Lord Salisbury, Primo Ministro britannico nel 1906, durante la ratifica della convenzione anglo-francese sul confine fra Nigeria e Niger: “Noi [inglesi e francesi] abbiamo tracciato linee sulle mappe dove nessun piede di uomo bianco ha mai camminato: abbiamo ceduto montagne, fiumi e laghi gli uni agli altri, ostacolati solo dal piccolo impedimento di non sapere mai dove fossero esattamente queste montagne, questi fiumi e laghi.” (Lord Salisbury citato in Anene 1970, 3). Quest’imposizione di confini ‘alieni’ alle popolazioni africane ha comportato la divisione di gruppi etnici, la cristallizzazione di identità etniche prima fluide – il caso più celebre è quello degli Hutu e dei Tutsi e del genocidio ruandese del 1994 – cambiamenti strutturali nella vita quotidiana di numerose popolazioni, minandone il sostentamento economico e le relazioni sociali, forzandole a deviare dalla loro vita tradizionale. Addirittura alcuni popoli sono stati divisi fra varie nazioni, il caso più celebre è quello dei somali, che hanno sì il loro Stato sovrano ma sono anche ampiamente presenti in Etiopia, Gibuti e Kenya.
Ma in Africa, sin dall’inizio del processo di decolonizzazione nel 1947, le guerre sono state quasi unicamente intra-statali – ovvero all’interno dei confini degli Stati – più che inter-statali, ovvero tra Stati. Ma allora perché i confini coloniali non sono stati cambiati anche se mentivano palesamente riguardo alla composizione della popolazione e dei suoi territori?

Questo è dovuto alla decisione dei padri fondatori dell’Organizzazione per l’Unità Africana (OAU). L’OAU è stata fondata nel 1963 ad Addis Abeba sotto l’egida di alcuni fra i più noti statisti africani dell’epoca come Haile Selassie, imperatore d’Etiopia, il dr. Kwame Nkrumah, presidente della Repubblica del Ghana, il Generale Gamal Abdul Nasser, presidente della Repubblica Araba Unita d’Egitto, Ahmed Ben Bella, presidente della Repubblica d’Algeria, Julius Nyerere, Presidente della Repubblica di Tanzania, Leopold Senghor, presidente della Repubblica del Senegal e altri 26 capi di Stato. L’OAU, dal 2002 Unione Africana (AU), stabilì con la risoluzione AHG/Res. 16 (1) infatti il riconoscimento dei confini esistenti degli Stati firmatari di modo da assicurarne, come definito dai Principi dell’OAU all’Articolo 3: l’uguale sovranità, la non-interferenza negli affari interni e il rispetto per la sovranità e l’integrità territoriale. Questo ha portato a delle relazioni inter-statali generalmente pacifiche e stabili, Clapham – africanista fra i più famosi – ha affermato che la decisione “possa essere salutata come un tentativo lungimirante e in genere straordinariamente riuscito di stabilire la struttura diplomatica dell’Africa indipendente” (Clapham 2017, 178).
Come fatto notare da Herbst, i confini coloniali sono stati creati dai colonizzatori come una risposta razionale ai loro bisogni politici e la decisione di mantenerli da parte dei leader africani è stata presa sulla stessa falsariga: un calcolo politico per evitare alternative più costose (Herbst 1989, 679). L’OAU, nel preservarli, ha comunque affermato che gli attuali confini costituiscono “un grave e permanente fattore di dissenso” (Herbst 1989, 675). Per quanto l’OAU poi abbia riconosciuto l’importanza di alcune richieste di riconoscimento di sovranità, esemplare quella nel caso del Biafra, la regola de facto è stata quella di riconoscere come legittime situazioni già ‘risolte’ come la creazione dello Stato eritreo nel 1991 dopo la vittoriosa guerra per l’indipendenza con l’Etiopia e di negare, come nel caso del Biafra, a movimenti ribelli qualsiasi tipo di legittimità relegandoli ad ‘affari interni’. Ma la decisione dell’OAU non è stata solo dettata dalla lungimiranza e dalla volontà di evitare conflitti su larga scala, come affermato da Julius Nyerere, ex Presidente della Tanzania, l’OAU divenne “un sindacato dei leader africani, essenzialmente definendo regole per la loro stessa sopravvivenza” (Herbst 1989, 676)
La preservazione dei confini coloniali, oggi confini nazionali, in Africa ha dunque rappresentato un’imposizione prima e un meccanismo di preservazione per evitare conflitti su larga scala da parte degli statisti ma rimane comunque un concetto importato e ‘alieno’ alla concezione tradizionale della vita africana. Se, infatti, per noi europei il concetto di ‘confine nazionale’ è ben chiaro e definito – dato che risale sostanzialmente alla loro definizione con la Pace di Westfalia del 1648 – sin dall’età feudale la tradizione africana è diversa, più informale data la vastità degli spazi da demarcare i quali, vista la bassa densità di popolazione, avrebbero portato alla creazione di organizzazioni statali centralizzate dal costo politico-economico elevatissimo. Secondo Adekunle Ajala i confini venivano demarcati in precedenza secondo tre principali forme: “frontiera di contatto”, per gruppi culturali e politici che coesistevano, “frontiera di separazione”, dove le comunità erano separate da una buffer zone, che era di fatto res nullius, terra di nessuno, e infine enclave per le comunità migratorie. Questi, a differenza dei confini europei, non erano statici ma fluidi (Okumu 2010, 5). Nonostante questa diversa concezione dei confini, è stato dimostrato ampiamente (per una trattazione estesa vedi Herbst 1989) che la creazione di confini ‘naturali’, ovvero corrispondenti a linee demografiche, etnografiche e topografiche è estremamente ardua nel caso africano: “i leader africani hanno ereditato istituzioni politiche estremamente deboli al tempo dell’indipendenza e ridisegnare i confini secondo una reale presenza amministrativa nelle varie aree sarebbe stata estremamente difficile […] il ricorso alla guerra, alla stessa maniera, non è stato particolarmente attrattivo per i leader africani a causa dei suoi costi ed incertezze” (Herbst 1989, 682). Sostanzialmente dunque la carta dell’OAU, e la decisione dei suoi fondatori, risponde al principio di stabilire e mantenere i diritti degli Stati piuttosto che degli individui – allo stesso tempo però questo ricade anche sugli individui stessi dato che dalla decisione ne è scaturita la quasi totale assenza di conflitti su larga scala per i confini.
Un parallelo che si può fare fra la decisione dell’OAU e quella della Conferenza di Berlino è che entrambi sono un esempio di reciprocità nelle relazioni internazionali, contraddicendo così la classica versione hobbesiana delle relazioni internazionali, infatti “l’accordo reciproco fatto dai leader africani indipendenti è lo stesso fatto dai colonialisti europei: una nazione non attaccherà né sarà attaccata da un’altra finchè una minima presenza amministrativa domestica è dimostrata” (Herst 1989, 689). L’unica differenza fra i colonialisti e i leader africani è che per i primi si considerava tendenzialmente come “minima presenza amministrativa domestica” il controllo della costa mentre per i secondi il controllo della capitale.
Concludendo, si può affermare che i confini coloniali stabiliti dagli europei e poi preservati dagli statisti africani rappresentano una risposta razionale, e funzionale, ad un problema politico. È vero che questi non ricalcano i confini demografici, etnografici e topografici ma data la difficoltà incontrata finora nel determinare queste specificità bisogna ricordarsi, sulla scia di Herbst che, comunque, i “confini sono sempre artificiali perchè gli Stati non sono creazioni naturali” (Herbst 1989, 692). Per portare un esempio a noi più familiare: chi sosterrebbe ad oggi che la Corsica deve far parte dell’Italia? O che la costa croata, o cosiddetta dalmata, che apparteneva alla Serenissima ‘ci è stata rubata’? Così si finisce per spingersi verso i vagheggiamenti di grandezza imperiale rivendicando i confini di Roma imperiale, di cui, almeno qua, nessuno ha nostalgia.

Bibliografia:
Bagnato, Bruna. 2006. L’Europa e il mondo. Origini, sviluppo e crisi dell’imperialismo coloniale. Mondadori.
Clapham, Christopher. 2017. The Horn of Africa: State Formation and Decay. Cambridge University Press.
Headrick, Daniel R. 2011. Il predominio dell’Occidente. Tecnologia, ambiente e imperialismo. Il Mulino.
Herbst, Jeffrey. 1989. “The Creation and Maintenance of National Boundaries in Africa”. International Organization, 43 (4), pp. 673-92.
Herbst, Jeffrey. 2014. States and Power in Africa: Comparative lessons in Authority and Control. Princeton University Press.
Lord Salisbury citato in Anene, J.C. 1970. The International Boundaries of Nigeria, 1885-1960. Londra: Longman Press.
Okumu, Wafula. 2010. “The Purpose and Functions of International Boundaries: With Specific Reference to Africa”, Capitolo 1 di African Union, African Union Handbook on Delimitation and Demarcation. African Union Border Program.