Skip to content Skip to footer

LO SMARRIMENTO DELL’OCCIDENTE

In seguito all’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022 l’Occidente ha avuto un momento di unità che non aveva avuto dalla fine della guerra fredda. Gli Stati Uniti e i loro alleati in Europa e in Asia si sono uniti nella condanna dell’invasione e nel sostegno militare, finanziario e umanitario all’Ucraina. Si è riuscito anche a coordinare una serie di misure economiche volte a indebolire la Russia e a dissuadere i suoi alleati dal sostenerla. Il G7 non è mai stato così efficiente ed esecutivo. L’unità in Europa su una questione storicamente divisiva come le relazioni con la Russia ha destato quasi stupore tra gli stessi leader politici, inaugurando, stando alla retorica utilizzata per l’occasione, una grande svolta – ‘Zeitenwende’ – che, secondo il Cancelliere tedesco Olaf Scholz, potrebbe portare alla trasformazione della sicurezza e della geografia europee.

Tanto profondo è il cambiamento geopolitico, ancora in corso, del continente europeo e dell’Alleanza atlantica, quanto sembra fragile la loro influenza sul mondo. L’Occidente, però, alla fine non è riuscito a mobilitare il sostegno globale sperato per l’Ucraina e, con la risposta di Israele all’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, l’opinione pubblica internazionale si è anzi rivoltata contro un Occidente considerato egemone, ipocrita, e disposto a sfruttare e distorcere le regole e i principi del diritto internazionale a proprio piacimento.

Intorno ai due conflitti si sono sviluppate narrazioni contrapposte e assolutiste. I leader occidentali li vedono come uno scontro tra il mondo liberale e democratico da una parte e l’autoritarismo e i suoi sostenitori illiberali dall’altra. Secondo la Russia e la Cina, invece, l’Occidente è in un declino reale e morale irreversibile. Lo accusano di sostenere un multilateralismo di facciata, di usare la democrazia come pretesto per creare alleanze basate sull’interesse, e ora viene punito per la sua arroganza ed egemonia storiche. 

Ciò che ha spiazzato molti in Occidente, al di là dei leader politici, è stato scoprire che la propaganda russa e cinese aveva eco nell’opinione pubblica globale. Con umiltà, si è iniziato a guardarsi allo specchio.

Lo smarrimento dell’Occidente – o Westlessness, come lo ha chiamato la Munich Security Conference nel 2020 – ha radici più profonde degli eventi bellici degli ultimi anni, ed è il risultato di tendenze complesse sia internazionali, sia interne alle società occidentali. Con la fine dell’eccezionalismo e dell’egemonia americana, che ha ben servito anche la pace e la prosperità in Europa, molti nodi stanno venendo al pettine. Per fare ordine bisogna però uscire dalle logiche binarie che caratterizzano le politiche e le narrazioni dominanti.

Il trend globale è quello di un declino relativo dell’Occidente – in termini di popolazione e di potere economico – a cui non corrisponde necessariamente una relativa cessazione del potere politico. L’Occidente continua a esercitare un soft power che non ha rivali, anche se alcuni paesi emergenti diventano sempre più influenti. La fine dell’unipolarità ha innescato una competizione tra Stati Uniti e Cina, accentuata dalla pandemia e dai conflitti, la cui traiettoria tende a portare a una biforcazione delle relazioni internazionali. Da qui le visioni manichee e contrapposte che caratterizzano la retorica politica, e anche lo spiazzamento di chi non aderisce a una nuova versione, tecnologicamente avanzata e più interconnessa, della guerra fredda.

Al contempo, un Occidente in declino e una Cina più assertiva hanno lasciato vuoti di potere che vengono sfruttati dalle potenze regionali, creando spazi per conflitti e violenze soprattutto in Medio Oriente e in Africa. Le dinamiche multipolari e la debolezza del sistema internazionale permettono ad attori avventuristi di cogliere l’occasione di cambiare lo status quo. In questo contesto, i leader delle potenze emergenti stanno promuovendo strumenti di governance internazionale alternativi al sistema messo in piedi a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, dall’ONU al Fondo Monetario Internazionale, dando vita a raggruppamenti come i BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa, recentemente allargato a Egitto, Etiopia, Iran, ed Emirati Arabi Uniti) o la Banca Asiatica d’Investimento per le infrastrutture.

Queste dinamiche internazionali fanno da sfondo alle contestazioni dell’Occidente che provengono dall’interno della società. Il catalogo di accuse è lungo e viene sia dai movimenti sovranisti di destra sia da quelli terzomondisti di sinistra.

L’accusa più comune rivolta all’Occidente è quella di usare ipocritamente due pesi e due misure. Essa fa riferimento al diritto internazionale e al ruolo che gli Stati Uniti e i loro alleati hanno nelle questioni che determinano la pace e la guerra a livello mondiale. La tesi occidentale sulla necessità di sostenere l’Ucraina nel contrastare la violazione della sua integrità territoriale è stata comparata agli interventi militari in Iraq, Libia e Siria. Analogamente, l’Occidente viene tacciato di ipocrisia quando non interviene in altri conflitti globali, manifestando così la sua incoerenza e un uso selettivo del diritto internazionale.

Un’altra tematica incriminante è stata la gestione della pandemia da Covid, dove la retorica occidentale sui beni comuni globali – global public commons è venuta meno di fronte alla ricerca di forniture sanitarie e alla distribuzione dei vaccini per scongiurare il pericolo rappresentato dal virus. Non solo: gli stati occidentali hanno potuto accedere a risorse pubbliche per sostenere i costi economici della pandemia che i paesi a basso e medio reddito non avevano, un fatto che ha accentuato le diseguaglianze globali.

Vengono mosse accuse simili sulla questione ambientale. I paesi emergenti affermano il loro diritto allo sviluppo industriale ed economico e contestano il modo in cui viene attribuita la responsabilità per arginare il cambiamento climatico. Inoltre, l’Occidente ricco è accusato di perseguire politiche neocoloniali. Un esempio è l’accusa mossa dall’Indonesia all’Unione europea di “imperialismo regolamentare” rispetto ai tentativi europei di imporre limiti alla deforestazione per la coltivazione di palme da olio. Ciò che agli europei appare progressista e ambientalista viene visto come imperialista e contrario allo sviluppo dei paesi economicamente meno abbienti.

Le politiche restrittive dell’Occidente sulle migrazioni sono forse il tema che più mette in luce la divergenza tra la retorica occidentale sui diritti umani e la prassi di contrastare in tutti i modi l’arrivo di migranti e rifugiati. Non solo le politiche occidentali si sono inasprite mettendo in pericolo la vita di chi viaggia, ma spesso sono caratterizzate da discriminazioni razziali. In Europa i rifugiati ucraini hanno avuto un’accoglienza diversa dai rifugiati afgani e siriani; negli Stati Uniti di Trump l’immigrazione di musulmani venne temporaneamente bloccata; l’Australia ha adottato politiche di esclusione degli immigrati africani.

Queste politiche, posizioni, contraddizioni e ambiguità riflettono anche crisi interne alle società. Si discute molto delle conseguenze economiche e culturali della globalizzazione, causa secondo molti di una protesta politica basata su percezioni di disuguaglianza e ingiustizia (i movimenti anti-austerity, ad esempio) oppure basata su istanze identitarie, nazionaliste, e contro l’immigrazione. Quest’ultimo sentimento è al cuore dell’ascesa della destra populista, radicale e illiberale in Europa e negli Stati Uniti, dei cui effetti si discuterà più avanti.

Il fulcro dello smarrimento dell’Occidente si trova però nella crisi globale della democrazia. Secondo il grande politologo statunitense Larry Diamond, sono quasi due decenni che la democrazia è sotto scacco a livello globale. In primo luogo, sono in aumento i rovesciamenti dei sistemi democratici, sia tramite colpi di Stato che con la degradazione delle democrazie fragili. Dal 2020, ad esempio, l’Africa ha subito otto colpi di Stato militari. Molte democrazie fragili hanno visto deterioramenti importanti. Tra il 2010 e il 2020 i paesi che, secondo le classifiche internazionali, hanno subito il maggior declino sono Turchia, Nicaragua, Serbia, Polonia, Brasile, Slovenia, Bolivia, Benin, Ungheria e Mauritius. Alcuni paesi, invece, hanno visto cambiamenti positivi, come la Polonia. È da sottolineare che consideriamo molti di questi paesi come facenti parte dell’Occidente. Infatti, è in Occidente che le democrazie registrano i declini più marcati, sia dal punto di vista formale rispetto alle istituzioni democratiche, sia a causa della polarizzazione politica.

Infine, i regimi autoritari si stanno consolidando internamente utilizzando a questo fine una repressione più profonda, la guerra (il caso della Russia), e la tecnologia di sorveglianza autoritaria (il caso della Cina, che esporta la sua tecnologia). Secondo l’organizzazione V-Dem, che monitora l’andamento democratico nel mondo, 2 miliardi e mezzo di persone vivono in un regime autoritario.

La contestazione della democrazia e dei suoi principi liberali, dunque, avviene su quattro dimensioni diverse: all’interno delle società che hanno goduto di decenni di libertà personali e istituzioni democratiche; nei paesi più fragili dove gli attori democratici sono stati marginalizzati, esautorati, perseguitati e assassinati; a causa dell’interferenza sempre più pesanti negli affari interni dei paesi democratici, tramite la disinformazione, lo spionaggio, e tentativi di influenzare le campagne elettorali (ad esempio il referendum britannico per lasciare l’Unione europea); e infine nelle relazioni internazionali, con il crescente disordine globale e la violazione dei principi del diritto internazionale, come in Ucraina e nei territori palestinesi.

In questo contesto di disordine, la destra radicale e populista trova ampi spazi per accrescere il proprio potere sia nei propri paesi, sia altrove. Il caso emblematico di maggior successo è quello di Viktor Orbán in Ungheria che, per consolidare la propria posizione al potere, ha progressivamente esautorato le istituzioni, le regole e la pratica stessa della democrazia. Orbán è in grado di minare la politica estera dell’Unione europea e ha indirizzato quella del proprio paese verso alleati internazionali allineati su posizioni simili e sull’opportunismo economico. Tra i suoi amici figurano Donald Trump, Benjamin Netanyahu e il presidente serbo Alexandar Vučić. In un discorso tenuto alla Conferenza per l’azione politica conservatrice a Budapest il 25 aprile 2024, Orbán ha reso esplicito il legame tra le dinamiche globali e la sua causa antiliberale: “I progressisti liberali sentono il pericolo. Cambiare questa epoca significa sostituirli”. 

L’ascesa della destra radicale e populista è quindi una conseguenza dell’indebolimento della democrazia, non la causa. Ciò detto, una volta al potere essa stessa si adopera per smantellare le istituzioni democratiche e i principi su cui si fondano le democrazie dalla Seconda guerra mondiale e grazie ai quali le destre illiberali sono salite al potere.

Lo smarrimento dell’Occidente non è dovuto solamente alle crociate ultraconservatrici contro i diritti delle donne, LGBTQIA+, degli stranieri e, in generale, contro il cosiddetto ‘wokeism’ che tanto ossessiona i leader della destra illiberale. Anche a sinistra ci sono movimenti di contestazione e di revisione delle politiche, più che dei principi fondanti, delle democrazie occidentali. Il mondo accademico americano, tradizionalmente il portabandiera dei valori illuminati e progressisti, è sotto attacco, ma non solo da parte della destra illiberale. I nuovi movimenti che chiedono più inclusività nell’espressione delle diversità di genere e culturali si trovano sempre più spesso ad essere antagonisti della vecchia guardia che è stata pioniera della promozione della giustizia sociale e dei diritti delle donne. I vecchi movimenti culturali che hanno cambiato il mondo dopo il 1968 subiscono la contestazione dei nuovi movimenti che danno un’impronta identitaria alla rivendicazione dei propri diritti.

In questo quadro si presenta un’altra autocritica: la riflessione storica sulle responsabilità occidentali rispetto al colonialismo e alla schiavitù. Queste riflessioni si intersecano negli Stati Uniti con i movimenti di protesta come il #BlackLivesMatter contro la violenza razziale della polizia, o con quelli che chiedono la sostituzione dei monumenti dedicati a personaggi storici coinvolti nello sfruttamento della schiavitù e nel colonialismo. Tramite questi movimenti, il filone di teoria e critica postcoloniale – fino a pochi anni fa più accademico che politico – inizia a influenzare il dibattito in diversi paesi del mondo, fino a trovare una convergenza nella protesta contro il sostegno internazionale alla guerra israeliana contro Hamas e il popolo palestinese, che mentre scrivo questa nota, nella primavera del 2024, prende forza nelle università americane e altrove.

Tuttavia, ci sono alcune conseguenze paradossali nella traduzione politica di alcune idee nate negli studi postcoloniali che contribuiscono allo smarrimento dell’Occidente. La critica all’interventismo occidentale all’estero conduce a una logica di focalizzazione sulla politica interna a scapito della politica estera. Molti, nella sinistra globale, spingono verso una maggiore attenzione alle democrazie nazionali che a quelle che si trovano fuori dai confini, concentrandosi sulle dinamiche politiche interne piuttosto che su quelle internazionali. Il ragionamento è questo: se le nostre democrazie hanno prodotto effetti nefandi nel mondo, dagli imperi coloniali al cambiamento di regime in Iraq, dalla schiavitù a un nuovo apartheid in Israele, è meglio fare un passo indietro e allontanarsi dalla politica internazionale.

A destra, seguendo logiche e ragionamenti completamente diversi, si giunge a conclusioni simili. L’interesse della destra radicale è mantenere il consenso sulla base di ideologie nazionaliste, spesso etno-nazionaliste e xenofobe. A questo fine, la politica estera si deve fondare esclusivamente sugli interessi nazionali, non su principi etici o sull’identificazione di beni pubblici globali. Il sistema e il diritto internazionale e la partecipazione ad organizzazioni internazionali come l’Unione europea o la NATO, sono secondarie rispetto all’autodeterminazione nazionale. La logica di Donald Trump e del suo slogan Make America Great Again (MAGA) è che il centro del mondo è il proprio paese – il resto del mondo può servire solo l’interesse nazionale.

Entrambe queste dinamiche conducono a un Occidente introverso e polarizzato. I regimi autoritari approfittano del suo indebolimento e fanno costantemente uso delle idee nazionaliste e postcoloniali per legittimare le proprie politiche. E in questa situazione, l’Occidente ha smarrito la bussola per ripensarsi in un mondo che è più diverso e più allargato di quello che aveva trovato alla fine della Guerra Fredda.

Show CommentsClose Comments

Leave a comment

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.

This Pop-up Is Included in the Theme
Best Choice for Creatives
Purchase Now