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GLI STUDENTI NON SONO CLIENTI

Negli anni, ho imparato che quando si parla di università ognuno pensa che le cose stiano nel modo che la sua esperienza personale suggerisce. Questo riguarda chi nell’università ci lavora, dai bidelli ai rettori, così come chi al mondo universitario è esterno: ex studenti, familiari degli stessi, amici di quelli che hanno un cugino che ha fatto questo e quello. In genere, si ha un quadro parziale della galassia universitaria, la cui complessità ed eterogeneità è molto più grande di quanto ognuno pensi. Io non faccio eccezione. Nonostante lavori nell’università pubblica da più di trent’anni, i miei giudizi sono probabilmente influenzati da quel che ho visto e sentito di persona. Ciononostante, mi assumerò il rischio di raccontare quel che vi succede oggi e dove stiamo andando.

Avvertenza: questo non è il solito pezzo sul malaffare baronale, sul professore sadico che boccia tutti o sul diplomificio che rilascia titoli farlocchi. Questo sottogenere del giornalismo scandalistico serve giusto ad accendere gli animi di chi l’università la conosce poco. Ciò di cui intendo parlare è il ruolo che la nostra società assegna all’università e di quanto sia diverso da quello che invece secondo me dovrebbe avere.

Chiedo scusa se la prendo un po’ alla larga: i problemi su cui voglio attirare l’attenzione del lettore derivano da una tendenza culturale che ha preso campo nell’occidente a partire dall’ultimo quarto del secolo scorso e che impatta su ogni aspetto del vivere collettivo, o quasi. Non posso e non voglio parlare in modo esauriente di un fenomeno di tale portata, per cui mi limiterò a quello che conosco più da vicino: l’istruzione superiore, appunto. Sta al lettore decidere se e quanto il discorso possa essere esteso ad altri ambiti.

La tendenza culturale di cui parlo riguarda l’idea che il mercato fornisca la chiave di lettura principale per interpretare il mondo. A scanso di equivoci, dico subito che secondo me l’economia di mercato – e la democrazia rappresentativa che ne è il complemento – è l’organizzazione sociale migliore fra tutti gli esempi storici che abbiamo. Tuttavia, la mia formazione di economista mi permette di vedere quanto l’assunzione indiscriminata delle categorie del mercato sia impropria scientificamente e deleteria nella pratica.

Chiunque si sia accostato anche solo per poco allo studio dell’economia sa che nel mondo reale esistono molte condizioni che lo rendono diverso dal mondo astratto immaginato dagli economisti, in cui l’accordo bilaterale fra agenti razionali produce sempre risultati socialmente ottimali. Nel mio mestiere, si dice che queste condizioni danno luogo ai cosiddetti “fallimenti del mercato”: informazione incompleta ed asimmetrica, esternalità e così via. Ma questi tecnicismi non sono indispensabili. Basterà dire che gli economisti sanno da generazioni che usare le transazioni private come unico strumento per regolare la vita collettiva non produce un ottimo sociale, e che esse vanno, come minimo, opportunamente normate. 

Disgraziatamente, tale complicazione è stata ignorata, o per lo meno sottovalutata, dagli accademici (principalmente, direi, per miopia e quieto vivere) e dai policy maker (principalmente, direi, in modo strumentale). Da circa cinquant’anni a questa parte il dibattito pubblico ha dato per scontato che le privatizzazioni siano in sé una buona cosa, che la concorrenza produca invariabilmente risultati virtuosi e che il benessere si identifichi con la soddisfazione dei bisogni materiali dell’individuo. 

L’abitudine di usare le categorie del mercato per leggere la realtà ha portato noi economisti a una descrizione stilizzata, ancorché perfettamente coerente, del perché l’istruzione esista. In estrema sintesi, l’idea è che ci sono individui (o le loro famiglie) disposti a sostenere i costi dell’istruzione in cambio dei benefici economici che questa porterà loro. Fare l’università è una delle tante forme di investimento: lo studio conduce all’accumulazione di capitale umano, che accresce la capacità dell’individuo di produrre ricchezza e quindi i suoi redditi futuri. Esistono centinaia di pubblicazioni in cui vengono stimate le cosiddette equazioni di Mincer, tramite le quali si cerca di quantificare con la massima precisione possibile a quanti dollari all’anno equivalga un anno in più di istruzione. 

Se questa è la descrizione ortodossa dell’istruzione, diventa inevitabile un’idea di università in cui lezioni ed esami sono solo un servizio che un’azienda (l’università) fornisce ad un cliente (lo studente). Ne seguono in modo quasi banale diversi fatti, evidenti soprattutto in quei paesi che hanno preso il discorso particolarmente sul serio: per primi gli Stati Uniti, ma anche, negli ultimi anni, l’Inghilterra, con il riordino del settore voluto dal governo Cameron. Gli studenti pagano cifre rilevanti (decine di migliaia di euro all’anno) per il diritto a conseguire un titolo che segnali le loro qualità vere o presunte, e molti si indebitano pesantemente. Le università, inoltre, competono fra loro come aziende, e cercano di attirare studenti con politiche di marketing variamente articolate: si va dal modello di élite (il MIT, per esempio, in cui chi esce è davvero uno specialista coi controfiocchi) al modello hard discount (io faccio finta di insegnarti, tu fai finta di imparare, mi dai quattro soldi e siamo tutti contenti). In questo contesto, l’idea che in un’università si faccia anche ricerca è legata anche all’idea che produrre premi Nobel, o per lo meno qualche titolo di giornale, migliori la propria immagine agli occhi dei potenziali clienti, a danno delle università concorrenti.

Va da sé che una visione dell’istruzione in cui ciò che si apprende ha valore solo nella misura in cui sarà un giorno monetizzabile permea la società nel suo complesso e si riflette nelle difficoltà che tutto il sistema dell’istruzione, a partire da quello della prima infanzia, incontra nel dare prestigio e credibilità a cose che, a torto o a ragione, sono considerate poco spendibili sul mercato del lavoro.

Il frutto di tutto ciò è un progressivo impoverimento dei contenuti e deterioramento del rapporto fra docenti e studenti. Qualche settimana fa, ho incontrato a un convegno una brava collega, che dopo aver preso il dottorato in Inghilterra e aver fatto tutta la carriera lì si è ritrasferita da poco in una buona università italiana. Mi raccontava con accenti di dolente impotenza aneddoti della sua esperienza inglese che ruotavano attorno all’atteggiamento per cui lo studente, in quanto cliente, ha sempre ragione. Quindi i contenuti dei corsi e le modalità degli esami devono per forza riflettere quel che gli studenti si aspettano di ricevere, dal momento che pagano. Contrariamente a quel che i luoghi comuni vorrebbero, la mia collega non riusciva a nascondere il sollievo che le portava il ritorno in Italia. 

Nel nostro paese, infatti, non siamo così estremi, anche se per molti versi stiamo andando nella stessa direzione. La normativa che regola il funzionamento degli atenei pubblici contiene dei meccanismi impliciti che li incoraggia a farsi concorrenza fra loro per accaparrarsi il numero di studenti più alto possibile. Vediamo una crescente tendenza al ricorso a tecniche di marketing più o meno audaci e alla creazione di corsi di laurea sugli argomenti più fantasiosi e accattivanti. Gli studenti compilano questionari improntati sullo stile della customer satisfaction. Nel contempo, il lavoro del docente universitario è sempre più burocratizzato e incanalato verso un modello fordista in cui l’aula è la catena di montaggio da cui escono laureati, in tempi certi e minimizzando gli sprechi. Un docente che tenti di fare didattica in modo anticonvenzionale e creativo viene visto con sospetto se non con ostilità. È inutile dire che per un collega giovane il conformismo diventa una vera e propria tecnica di sopravvivenza. In questo senso, il fatto che la componente artigianale e creativa del lavoro universitario sia stata progressivamente screditata è una ovvia conseguenza. 

E qui vengo alla tesi centrale che propongo al lettore: tutto questo è sbagliato. Il modello mercatista dell’istruzione è scientificamente dubbio (o per lo meno incompleto) e socialmente dannoso. Nel modello standard il puro amore per la conoscenza semplicemente non è previsto. D’altronde, dalla ‘scienza triste’ non ci si può aspettare che si indulga sul sacro fuoco della passione intellettuale. E peraltro, la visione completamente utilitaristica dell’istruzione contiene già in sé un germe di contraddittorietà: nella lingua inglese, la frase “se sei così in gamba, come mai non sei ricco?”, con cui uno studente può apostrofare un docente è quasi un topos. Ma questo non sarebbe un problema: che uno studente affronti un percorso per calcolo o per passione o per un misto fra i due non ha alcuna importanza. 

Ciò che è invece davvero rilevante è la funzione sociale dell’istruzione, e quindi non i vantaggi individuali, ma quelli collettivi. Il compito che la società assegna, da sempre, all’università è ciò che potremmo chiamare la ‘manutenzione della conoscenza’. La manutenzione implica la conservazione critica della conoscenza esistente, il suo accrescimento e la sua trasmissione intergenerazionale. Le prime due funzioni pertengono alla ricerca, la terza alla didattica. 

Nella visione che sostengo, la ragione per cui è fondamentale che in una società esista la didattica (non solo quella universitaria, peraltro) è che con la didattica le conoscenze della generazione precedente passano, filtrate e migliorate, alla generazione successiva. Se prendiamo per buona quest’idea, gli studenti non sono clienti dei docenti. È vero invece che docenti e studenti concorrono a far sì che le idee e le nozioni attraversino il tempo e le generazioni, estinguendosi, ampliandosi e arricchendosi in un processo simile alla selezione naturale. Studenti e docenti sono collaboratori in un progetto la cui beneficiaria è la società intera e che è sostanzialmente la costruzione di un ponte fra passato e futuro. 

Il motivo per cui è giusto che la fonte di finanziamento principale per l’università pubblica sia la fiscalità generale, anziché le tasse degli studenti, risiede nel fatto che chi esce dall’università sarà chiamato a prendere decisioni che si ripercuotono su tutti. In veste di manager di azienda, di dirigente pubblico, di magistrato, di psichiatra. Una classe dirigente di valore è un vantaggio per l’intera collettività. Nell’ottica mercatista, un bravo medico cura la gente che è disposta a pagare per i suoi servizi, e guadagna in proporzione. Nelle società socialdemocratiche moderne, un bravo medico serve per assicurare cure di qualità anche a chi i servizi non può pagarli. In una società evoluta, il contribuente è chiamato a pagare anche per la costruzione di una classe di intellettuali con cui non avrà mai a che fare personalmente, come gli etnomusicologi o i filologi romanzi. E ciò è un bene. 

A testimonianza del fatto che questa idea non me la invento io, segnalo che nell’università italiana esiste la dizione “terza missione”, che è appunto la disseminazione della conoscenza al di fuori dell’accademia. A parole, è blandamente incoraggiata, ma è irrilevante sia dal punto di vista della remunerazione che delle prospettive di carriera.

Superficialmente, potrebbe sembrare che, in un sistema in cui lo studente è un cliente, ci sia più garanzia di una didattica di qualità. In fin dei conti, si potrebbe pensare, vale il principio per cui i ristoranti buoni sono pieni e quelli scadenti no. Al contrario: se lo studente è il giudice ultimo della qualità della didattica, niente impedisce a studenti e docenti di accordarsi, con mutua soddisfazione, sul modello hard discount a cui accennavo prima. Ci sono tanti modi in cui la didattica può essere fatta male: ad esempio, facendo corsi obsoleti o mal proporzionati, oppure dando valutazioni stravaganti, capricciose o peggio. Queste pecche non danneggiano necessariamente lo studente alla ricerca del pezzo di carta, ma danneggiano sicuramente la società nel suo insieme. 

Certo, non c’è niente di male se chi ha studiato più a lungo guadagni di più, né che il singolo individuo decida di intraprendere una certa carriera solo perché desidera una vita agiata, senza alcun interesse per il proprio ruolo sociale. Va bene anche questo: la società trae vantaggio anche dal notaio che è diventato tale per ereditare lo studio di papà, nella misura in cui fa bene il suo lavoro. La remunerazione dei bravi laureati è una virtuosa conseguenza del meccanismo per cui, in un mercato che funziona bene, chi fa cose che portano un grande beneficio a molte persone quasi sempre ne gode i frutti economici. In questo, un grande neurochirurgo non è diverso da Emma Stone o Lionel Messi. Di conseguenza, l’idea ortodossa per cui chi si istruisce lo fa in vista di un beneficio privato non è sbagliata, né dannosa. È, semplicemente, incompleta perché trascura il ruolo sociale dei laureati, che essi hanno volenti o nolenti.

Si potrebbe argomentare che la mia distinzione fra modello mercatista e modello sociale, come li ho chiamati finora, è schematica. Può essere. La verità è che in ogni sistema c’è una convivenza fra i due, che vanno presi come casi estremi e polari. Altrimenti, non si spiegherebbe come mai negli Stati Uniti ci siano università pubbliche di altissimo livello (Berkeley, per dirne una) e dipartimenti che ospitano i migliori studiosi di discipline palesemente non commerciabili, come ad esempio le lettere classiche. La mia non vuol essere la solita geremiade da europeo snob sulla malvagità del capitalismo imperialista. Piuttosto, mi piacerebbe che il lettore traesse qualche spunto di riflessione da queste parole e iniziasse un dibattito collettivo sui punti che ho sollevato, come minimo su quello che vogliamo dal sistema dell’istruzione superiore. 

Il mezzo con cui la società tradizionale risolveva il problema di riconciliare l’obiettivo collettivo di una classe dirigente di qualità col problema individuale di sostenere i costi dell’istruzione era quello di accostare ai vantaggi economici del laureato il prestigio sociale di cui godeva in quanto tale. Oggi che quest’ultimo incentivo è venuto meno, l’unico modo di convincere un giovane a studiare è promettergli dei benefici materiali. Quanto credibile sia questa promessa, all’alba di un’era in cui l’intelligenza artificiale prefigura una cancellazione delle professioni impiegatizie così come decenni fa il progresso tecnico spazzò via braccianti e operai non qualificati, è difficile dire. Forse, l’unica via di uscita sta proprio nel riconoscere in modo più compiuto e sistematico il valore collettivo e sociale del sistema dell’istruzione e ripensare di conseguenza il sistema di incentivi per cui possiamo assicurare la manutenzione della conoscenza per le generazioni future.

AUTORE

Riccardo “Jack” Lucchetti è nato ad Ancona nel 1964, e lì è sempre rimasto. È professore di Econometria nella locale università, dove insegna e fa ricerca. La sua produzione scientifica è elencata su https://scholar.google.com/citations?user=PT_IioMAAAAJ

È un convinto sostenitore del software libero e fa parte del team di sviluppo di gretl (https://gretl.sourceforge.net/), un importante programma open source per l’econometria.

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