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CONTRO IL FEMMINISMO LIBERALE: APPUNTI DI LOTTA DECOLONIALE DALLE DONNE PALESTINESI

Dopo un lungo periodo storico in cui le donne sono state reticenti a chiamarsi femministe, negli ultimi decenni il femminismo è entrato massicciamente a far parte della cultura “pop”. Oggi spopola ovunque nei paesi europei e negli USA, e, se da un lato, c’è indubbiamente del positivo, (in tutto, anche nelle t-shirt con su scritto “we should all be feminist”) l’altra faccia della medaglia è che a tutto questo non è corrisposto un reale raggiungimento della parità di genere. 

Nel tempo, il femminismo così generalmente inteso è stato sussunto finendo col diventare più compatibile con gli ideali neoliberisti e neoconservatori che con quelli di un movimento radicale ed intersezionale, nato “dal basso” e con finalità rivoluzionarie, quale dovrebbe invece essere. Nonostante questo femminismo condanni formalmente le discriminazioni e difenda la libertà di scelta, precisamente si rifiuta poi nel concreto, e quasi sistematicamente, di affrontare le condizioni socioeconomiche che rendono questa libertà di scelta impraticabile per moltissime donne. 

Il capitalismo occidentale, infatti, è diventato abilissimo nel rimestare ed incorporare le idee antagoniste e i movimenti controculturali nel suo flusso, riuscendo addirittura a disinnescare, fino ad eclissarla del tutto, la matrice politica che vi è alla base fino a renderli innocui. Le questioni legate alla classe e al privilegio, ad esempio, non vengono quasi mai prese in considerazione da questo femminismo ed in modo più o meno palese le donne non occidentali sono spesso tagliate fuori dalle sue narrazioni che si rivolgono perlopiù a corpi, identità e a problematiche “bianche”. Questioni come il diritto alla cittadinanza, il lavoro di cura invisibile che spesso si regge sulle donne povere e in particolare sulle lavoratrici migranti senza diritti e senza tutele o gli abusi di potere che queste spesso subiscono e hanno difficoltà a denunciare, solo per citarne alcune, raramente vengono inserite nell’agenda politica. Eppure, l’uguale accesso ai diritti fondamentali dovrebbe essere una priorità non negoziabile del femminismo. 

Questa dicotomia di approccio e di visione fra l’occidente e il sud globale del mondo è, d’altro canto, una questione che non coinvolge solo lo spettro delle questioni di genere ma è rintracciabile in una vasta gamma di fenomeni politici, sociali ed economici e riguarda anche altre sfere, come il razzismo, i diritti dei lavoratori e l’ambientalismo. Se è vero, dunque, che nell’era che stiamo vivendo qualunque fenomeno viene assorbito, rimasticato e rielaborato come un fonte di riproduzione del capitale stesso, questo paradigma assume forme assai grottesche quando lo si applica al femminismo, generando scenari alquanto distopici. Il genocidio in corso in Palestina è stato da questo punto di vista “rivelatore”, portando questi aspetti contraddittori ad emergere contemporaneamente e a cozzare tra di loro mettendo in evidenza tutte le debolezze e l’inconsistenza della natura del femminismo neoliberale, a cominciare dal doppio standard su cui si basa. 

Quanto sta accadendo alle donne palestinesi in questo momento, infatti, non si limita solo alla pulizia etnica, ai bombardamenti, alla perdita dei loro figli, dei loro affetti, alla fame e alla sete, al freddo, alla mancanza di cure e medicinali, alla distruzione delle loro case e della loro terra. Dal 7 ottobre sono state uccise più di 10.000 donne, fra cui 6.000 madri che hanno lasciato orfani 19.000 bambini. Ma a quella che è stata definita dall’UN Women, l’agenzia delle Nazioni Unite per l’uguaglianza di genere e l’empowerment femminile, “una guerra contro le donne”, che sta minando la loro esistenza e la loro dignità, si aggiunge un’ulteriore ferita: quella della propaganda del femminismo mainstream.

È dall’inizio del genocidio che assistiamo a una narrazione pressappochista che ha trovato spazio ovunque, permeando le organizzazioni internazionali e le istituzioni, i movimenti della società civile e i media mainstream, e che, oltre a dipingere Israele come l’unico modello di civiltà in contrasto con quel bastione d’arretratezza che è il Medio Oriente, rivendica anche, e all’occorrenza, un femminismo elitario e borghese in cui le donne, la difesa dei loro diritti, o la loro libertà di scelta, vengono tirati in ballo a corrente alternata, e solo per validare le posizioni che in quel determinato momento sono ritenute più convenienti. Un femminismo che si avvale di una visione semplicistica e binaria che viene applicata a tutte le questioni politiche e sociali nelle quali si imbatte e che si ritrova in tutti quei discorsi che nel tempo hanno utilizzato e utilizzano il linguaggio della “liberazione” per legittimare occupazioni militari, le invasioni di altre terre e i genocidi di interi popoli.

Se prendiamo ad esempio la narrazione che è stata fatta in Italia (e non solo) dei fatti avvenuti il 7 ottobre, potremmo renderci conto che per settimane ciò che ha dominato le cronache sono state quasi esclusivamente le donne e le violenze che queste hanno subito. Non si è parlato però di tutte le donne, ma soltanto di quelle israeliane. Se è certo che, come è stato anche successivamente confermato da un report delle Nazioni Unite, alcune di quelle rapite dai combattenti di Hamas, hanno subito stupri e violenze, non sono però state le uniche. Nella stessa nota ufficiale si parla di gravi violazioni dei diritti umani a cui donne e ragazze palestinesi sono state sottoposte successivamente all’attacco nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania dalle Forze di Difesa Israeliane: queste sono state giustiziate arbitrariamente, spesso insieme ai loro familiari, compresi i loro figli, ma anche detenute e picchiate, sottoposte a svariate forme di stupro, minacce, violenze sessuali e trattamenti inumani e degradanti. Tutte notizie che non abbiamo mai letto in nessuna testata nazionale cartacea od online, e che non hanno mai trovato spazio nei talk e negli approfondimenti dei tg. Peraltro, non si è parlato neanche delle ragioni storiche e delle cause che hanno portato alla vendetta di Hamas; i media con copertura nazionale hanno spesso semplificato, fino ad azzerarla, una questione atavica e tragica che ha mietuto tantissime vittime fra i palestinesi, e in cui, soprattutto nel corso del tempo, hanno avuto la peggio proprio le donne. 

Condannare a compartimenti stagni, e interessarsi delle donne negli altri paesi soltanto quando vivono in Stati che sono in conflitto con i nostri alleati o in guerra con paesi ai quali vendiamo armamenti per milioni e milioni di euro – (come fa ad esempio l’Italia con lo Stato israeliano -) è infatti un atteggiamento tipico della propaganda del femminismo liberale odierno, ed è uno dei tanti modi attraverso i quali questo sostiene l’imperialismo occidentale e sfrutta i diritti delle donne nel terzo mondo, massacrandone la popolazione e dilapidandone le risorse. Spesso utilizza le donne anche per creare consenso attorno a tematiche considerate sacre dall’opinione pubblica o facendo leva sui buoni sentimenti. A gennaio un gruppo di intellettuali fra cui Corrado Augias, Massimo Recalcati, Natalia Aspesi e Concita De Gregorio, ha firmato un appello per dichiarare il 7 ottobre “femminicidio di massa” in solidarietà con le donne israeliane.  Allo stesso modo non c’è però mai stata, dall’inizio del genocidio, una ferma e aperta condanna della politica o di questi stessi intellettuali a quanto sta facendo Israele alle palestinesi, che da più di 7 mesi stanno  assumendo farmaci per bloccare le loro mestruazioni, stanno avendo cesarei senza anestesia e se riescono a non morire di parto e a partorire (a Gaza gli aborti sono aumentati del 300%), sono costrette a farlo per strada o sui pavimenti di quelli che un tempo erano ospedali, salvo poi sprecare tempo a soffermarsi sulla legittimità dell’utilizzo del termine genocidio in merito a quanto sta accadendo. Tutto questo, senza considerare che le violenze subite il 7 ottobre dalle israeliane, sono state ricostruite con certezza solo di recente, perché il governo aveva più volte cambiato versione (alcune testimonianze continuano a lasciare aperti molti dubbi), anche perché, proprio internamente alla redazione del New York Times, che per primo ha denunciato le violenze del 7 ottobre, c’è stata un’accesa discussione sulla legittimità di quel pezzo, che si è conclusa affermando che il saggio non avrebbe dovuto essere pubblicato perché non all’altezza degli standard del giornale, soprattutto dopo che sono stati resi pubblici alcuni post social nei quali la giornalista che si era occupata del caso, Anat Schwartz, incitava al genocidio. Promuovere, infine, un appello per dichiarare il 7 ottobre femminicidio di massa, è piuttosto fuorviante e intellettualmente disonesto dal momento che con la parola femminicidio, come ormai sappiamo, ci si riferisce a quei casi in cui una donna viene uccisa in quanto donna: per gelosia, per possesso, per un’idea di amore malato. Le donne morte nell’attentato di Hamas del 7 ottobre non rientrano di certo fra queste, anche perché, altrimenti, dovremmo definire femminicidi di massa tutte le guerre in cui muoiono delle donne. 

In generale questo atteggiamento che mira a distrarre dal dramma che si sta consumando in Medioriente e a silenziare ed invalidare le lotte dei movimenti Pro Palestina si è perpetrato più volte dall’inizio del genocidio e sempre utilizzando l’artificio retorico delle donne e della violenza che queste subiscono. Durante le manifestazioni organizzate per la giornata del 25 novembre, ad esempio, le femministe italiane che sono scese in piazza a manifestare contro la strage dei femminicidi nel nostro paese sono state redarguite dalla ministra Roccella (e non solo) per avere escluso le donne israeliane dalle loro rivendicazioni, un’accusa non solo falsa, come è stato ampliamente dimostrato da alcuni utenti su Twitter, ma priva di qualsiasi logica dal momento che trattandosi della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, era scontato si stesse manifestando contro la violenza su tutte le donne, a prescindere dalla loro nazionalità. 

Il 13 e 14 aprile, invece, in seguito alla risposta iraniana all’attacco israeliano del 1 aprile in cui Israele aveva assaltato il consolato iraniano a Damasco uccidendo 13 persone, molti giornali italiani fra cui Repubblica e Huffington Post, hanno cominciato a ripostare video e notizie (anche risalenti ai mesi scorsi) di ragazze iraniane che venivano arrestate per non aver indossato correttamente il velo. Notizie riproposte a mesi di distanza, in modo del tutto non contestuale, forse con l’intento di attirare l’attenzione altrove e in qualche modo farci dimenticare della politica genocida di Israele. Sicuramente proporre una narrazione così netta e priva di contesto parlando alla pancia delle persone genera un rifiuto totale oltre che un odio indiscriminato verso un nemico (in questo caso l’Iran) e rende di certo più facile accettare l’idea che un’ambasciata venga bombardata, o che coloro i quali l’hanno bombardata proseguano indisturbati nel loro progetto genocida. Che le politiche antifemminili dell’Iran siano da condannare è fuori discussione, ma ciò non toglie che le due cose non si escludano a vicenda: si può infatti essere indignati contemporaneamente sia per la politica violenta nei confronti delle donne del governo iraniano che per quella scellerata e genocida di Israele.

Un’altra caratteristica del femminismo neocoloniale, infine, è quella di ignorare di essere parte del problema, evitando di mettersi in dubbio o di analizzare i propri privilegi, un atteggiamento che concorre così facendo indirettamente ad incentivare e a sedimentare una visione nella quale le donne che vivono al di fuori dell’Europa o del mondo occidentale sono inferiori, prive di potere decisionale e col bisogno costante di essere protette e salvate. Uno dei pilastri sui quali si fonda questo femminismo neocoloniale è la missione civilizzatrice. Questa consiste prevalentemente nell’ignorare le reali problematiche delle donne nere, razzializzate e colonizzate e che assumendo implicitamente che ovunque esse si trovino possiedano la propria voce e la propria resilienza, e nell’arrogarsi il diritto di giudicare – e poi di agire – in contesti e situazioni che non conosce, col risultato, in Palestina come in altre terre che hanno subito il colonialismo, di amplificare le tragedie attraverso il suo intervento. 

Nel 2001 ad esempio, ovvero quando molti i paesi occidentali hanno cominciato ad interessarsi alla condizione delle donne afghane, molte esponenti del femminismo bianco e liberal americano hanno sostenuto l’invasione di quelle terre al grido di “liberiamo le donne afghane”. Ma c’è un però: le donne afghane non avevano mai chiesto o pensato di chiedere l’aiuto di  Meryl Streep, a maggior ragione se si considera che erano stati proprio gli Usa, in precedenza, a sovvenzionare, rifornendoli di armi, i talebani, in funzione antisovietica. All’epoca, infatti, non sembrava affatto essere un problema che questi fossero contro ogni forma di democrazia, dei folli integralisti, così come non sembrava un problema che imponessero alle donne di portare il velo integrale. Inoltre, anche se durante la loro permanenza in Iraq una parte della popolazione femminile ha beneficiato di alcuni diritti, le donne hanno comunque continuato a subire violenze e ad essere discriminate e oggi, ovvero da quando le truppe americane si sono ritirate, e i talebani sono ritornati al potere ancora più forti di prima, le donne si trovano a fronteggiare ulteriori e amplificate difficoltà dal momento che il paese sta attraversando una crisi umanitaria aggravata in cui la popolazione femminile (circa la metà) è esclusa da ogni forma di vita sociale.

Sulla condizione delle donne palestinesi da sempre, e anche in questi mesi, si è tentato di fare propaganda, non si è parlato della loro condizione effettiva ma piuttosto, quando sono state protagoniste sono state dipinte solo ed esclusivamente come succubi di un sistema sociale arcaico e disumano. Nonostante Israele propagandi le sue politiche in favore delle donne, della diversità sessuale e di genere, è stato proprio esso stesso ad inquadrarle e ad ancorarle (lo fa da decenni) in una rappresentazione cristallizzata che le vuole diverse culturalmente, assoggettate in strutture brutali e violente, in balia di uomini bestiali e disumani e non ultimo, come terroriste e criminali. Spesso alle donne la propaganda sionista contrappone l’immagine della donna israeliana, liberale ed emancipata tanto da essere reclutata addirittura nell’esercito. Israele si fregia di essere uno dei pochi Stati al mondo che incorpora le donne nei propri sistemi di difesa attraverso l’arruolamento obbligatorio e spesso lo narra come l’apice dell’emancipazione femminile, tuttavia, il fatto che questo stesso sistema sottometta altre persone, e altre donne – di solito palestinesi – non viene quasi mai menzionato. Questa visione si è man mano estesa contagiando tutto l’Occidente e rafforzando i già presenti pregiudizi beceri, islamofobi e razzisti, non solo sulle palestinesi ma su tutte le donne del mondo arabo, musulmane e non.

Da sempre le palestinesi combattono questo stereotipo, cercando anzi di mettere in luce l’intersezione delle oppressioni nazionali, sociali ed economiche e denunciando l’intrinseco nucleo patriarcale del regime di oppressione in cuisono costrette a vivere. Come tutte le oppressioni, sia il colonialismo che il patriarcato hanno a che fare con il dominio e l’esercizio della forza e sono entrambe mosse dalla stessa idea di appropriazione, che può riguardare un corpo ma che può anche riguardare l’occupazione illegittima di un territorio. Proprio per questo motivo, al contrario di quello che generalmente si crede, sono invece molto più affrancatedi quanto si possa superficialmente pensare. Questo non significa di certo che in Palestina i diritti delle donne siano garantiti, anche perché di sicuro, lo stato di oppressione costante in cui la popolazione è costretta a vivere da decenni non aiuta l’evolversi dei più basilari diritti civili, incidendo negativamente anche sul loro cammino verso l’emancipazione. Pensare però che Israele o l’Italia o gli USA o qualsiasi altro governo occidentale rappresenti la salvezza da questa misoginia piuttosto che incarnarne, in parte, una delle radici è totalmente irrealistico oltre che astorico. 

L’emancipazione, infatti, non è qualcosa che può essere calata dall’alto e di sicuro non spetta ad una ristretta cerchia di ricchi e ricche bianchi, occidentali e privilegiati decidere come debbano emanciparsi le donne negli altri Stati, o nel sud globale del mondo. Di sicuro, nessun femminismo cercherà mai di ricreare i suoi modelli e i suoi valori con la forza in altri luoghi. In fondo, il femminismo non ha a che fare con il “cosa” si sceglie, ma con la possibilità di “poter scegliere”.  Le palestinesi hanno scelto di ribellarsi tanto tempo fa e hanno da sempre avuto un ruolo chiave nella lotta per la rivendicazione della loro terra. Oggi, fra mille difficoltà, continuano a fare lo stesso, dal momento che a Gaza e in altre città divenute campi di concentramento a cielo aperto (con buona pace dell’ANPI), non sono poche le giornaliste giovani, colte e indipendenti che rischiando la loro vita stanno testimoniando il genocidio in corso – Plestia Alaqad, Noor Haraazen e Wizard Bisan, solo per citarne alcune. Queste donne stanno ridefinendo e collaudando un nuovo concetto di liberazione nazionale, e come recita uno degli slogan più celebri del manifesto di Tal’at, il movimento femminista che reimmagina la Palestina, sanno bene che “Non ci può essere liberazione nazionale senza la liberazione delle donne”. Sono ben consapevoli, cioè, del filo che lega etnia, nazionalismo e diritti delle donne e proprio da questo sorge il bisogno di decostruire entrambe le oppressioni, quella patriarcale e quella coloniale, facendone il fulcro della loro resistenza attraverso la lotta intersezionale, con un approccio decoloniale e multidimensionale. 

È questo l’unico modo per evitare che le lotte e il femminismo si gerarchizzino su una scala di urgenza la cui cornice è dettata da pregiudizi o dal luogo geografico in cui ci si trova. È da qui allora che è necessario prendere spunto per mettere in pratica una lotta veramente trasversale contro il patriarcato, la violenza di genere, il colonialismo e la segregazione, e contro ogni genere di marginalizzazione. Le donne palestinesi oggi, al fianco di quelle curde del Rojava o alle Black feminists africane, stanno di sicuro ridisegnando i confini del femminismo che verrà, un femminismo che non solo è intersezionale, decoloniale, multidimensionale e non gerarchico ma cha ha in sé il germe di un ribaltamento di prospettiva rivoluzionario perché abbandona le rigide suddivisioni fra la teoria e l’esperienza per lasciare finalmente spazio a chi lo vive sulla propria pelle, ovunque e ogni giorno.

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