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Il sole basso allungava le sagome degli ombrelloni, ancora  chiusi. La spiaggia davanti all’hotel, perfettamente  pettinata, deserta. 

Non c’era nessuno, tranne Marco.  

Lo vedevo camminare avanti e indietro, gobbo sul telefono,  gesticolando.  

Tirai le tende, mi tolsi l’accappatoio e andai in bagno a fare  una doccia. Quando uscii, lui era già in stanza. 

Aveva gli occhi piccoli, persi fra il nero delle occhiaie e  la pelle gonfia. Non aveva dormito nemmeno quelle due ore che  ero riuscita a fare io. Eppure non sembrava arrabbiato. 

Non mi diede il buongiorno. 

«Sembra che abbia ragione lei» – disse, senza guardarmi.  Fingeva di riordinare qualcosa sulla scrivania. 

«No… Non è possibile… Può davvero farlo?» 

Marco non nascose un gesto di fastidio: 

«Federica, ascolta. Ho appena riattaccato dopo un’ora con  l’Avvocato» – disse, gettando il telefono sul copriletto – «Secondo te di cosa abbiamo parlato? Delle nostre vacanze in  Grecia?»

Dio, le vacanze in Grecia. Le aspettavo da quattro anni, da  quando avevo iniziato il Master. Quattro anni senza muovere  il culo da Bruxelles per risparmiare, e studiare. Poi, un mese  abbondante in Grecia. Era il piano. Lo aspettavo da anni. E  ora eravamo in mezzo a tutto questo. 

Mi ricordo quando l’ho detto a Marco, che avevo prenotato già  tutto. È impazzito. Non di gioia, no. Lui non è il tipo da  reazioni positive. Ha cominciato a chiedermi ogni particolare  dell’organizzazione e c’è rimasto male, si vedeva, quando ho  detto che mi aveva dato una mano Enrico. Era ossessionato  dall’idea che non ce la potessimo permettere una vacanza così,  di un mese pieno, in Grecia. Ha cominciato a fare i conti. 

L’ho interrotto e gli ho detto: 

«Senti Marco, questa è la mia vacanza. La aspetto da quattro  anni e la farò. Hai intenzione di venire con me?» 

Ha risposto che sì, ma certo, certo che voglio venire è solo  che… Lasciamo stare, vengo, sicuro

Ma si vedeva benissimo che non era convinto. Lasciai cadere  il tema, aspettando che il tempo gli facesse accettare la mia  decisione, e nelle settimane successive non pensai ad altro  che non fosse la stesura e la discussione della mia tesi.  Leggevo e scrivevo. Leggevo e scrivevo. Leggevo e scrivevo e 

a malapena mangiavo. Marco non mi forzava a farlo. Tornava a  casa dal laboratorio dov’era ricercatore e preparava la cena,  in silenzio. Mangiava appena un po’ di riso con verdure in  cucina, con la scodella in mano sul lavello e guardando la  pioggia tamburellare sulla finestra. Io studiavo sul tavolo  del salotto, l’unico della casa. C’eravamo dati la regola di 

parlarsi solo dopo le dieci di sera e fino alle otto del  mattino, quando lui usciva di casa. Solitamente un minuto dopo  le 22 lui era lì, a schioccarmi un bacio sulla bocca dicendo  castigo finito! ma da quando gli avevo detto della Grecia aveva  smesso di farlo. O almeno mi sembra che sia stato da quel  giorno là. 

«Ho trovato una soluzione» – dissi una sera. 

Mi lanciò un’occhiataccia: non erano che le nove. 

«Lascia perdere la regola, e senti: mettiamo in affitto questa  casa mentre siamo via, per i turisti.» 

«Sei pazza? Siamo noi gli affittuari qui, ed è esplicitamente  vietato dal contratto. Se lo scoprono ci cacciano fuori, e un  altro posto dove paghiamo così poco non lo troviamo di questi  tempi.» 

Lo liquidai con un’alzata di spalle. 

«Non lo scoprirà nessuno, vedrai. Con tre o quattro settimane  di soggiorni turistici ci paghiamo il mese in Grecia e anche  il nostro, di canone. È un’idea di Enrico, mi sembra che possa  funzionare.» 

Sembrava contrariato. Forse, di non averci pensato lui. 

«Guarda che anche con i siti di affitto case bisogna  registrarsi, e pagare le tasse. Hai già pensato a come fare?» 

«Abbiamo fatto di meglio: abbiamo già trovato chi ci pagherà  la vacanza.» 

Ignorai il suo abbiamo? che masticò a mezza bocca. Girai il portatile verso di lui e dissi:

«Lei è Julia McArthur, canadese. Verrà qui da lunedì tre a  domenica sedici. Lo stesso giorno arriveranno i Fernandez, una  coppia di madrileni che resta le altre due settimane. Ci  pagheranno in contanti, abbiamo preso accordi via e-mail. Ho  creato un account apposta, ti lascio le credenziali per  sicurezza. Perfetto, no?» 

«Come no. Ma il tre agosto saremo già in Grecia: come gli  diamo le chiavi, e spieghiamo tutto?» 

«Ci aiuterà Enrico. Noi lasciamo asciugamani, lenzuola e tutto  quanto. Lui si occuperà di ricevere gli ospiti e fare i giri  con le chiavi. Per le pulizie ho già chiamato Marielle, al  solito.» 

Hai pensato a tutto, cominciò a dire fra sé e sé, a bassissima  voce, girando per la stanza con le mani dietro la schiena. Hai  pensato proprio a tutto, ripeteva. 

Lo guardai un po’, poi capii che gli ero indifferente. Era  concentrato su altro. Mi alzai e andai a scaldarmi un po’ di  riso. 

Ci ritrovammo nel letto. La mia abat-jour accesa, stavo  leggendo. La sua luce, invece, spenta. Pensavo dormisse. Ma a un tratto, disse: 

«Questa storia non mi piace, non sono d’accordo.» 

Ti preoccupi troppo, credo di avergli detto, prima di spegnere,  e ora siamo qui. Qui in Grecia, intendo, con una bella gatta  da pelare. 

M’ero calata nella parte dell’albergatrice perfetta, per cui  nei giorni precedenti il suo arrivo avevo spesso scritto a  Julia, la ragazza canadese, consigli su cosa vedere in città, 

quali fossero i posti migliori dove mangiare, e cose di questo  genere. Lei aveva sempre risposto con gentilezza, facendo  domande e spiegando quali fossero le cose che preferiva fare.  

Noi partimmo, lei arrivò accolta da Enrico. Si installò, e  dopo una settimana i suoi messaggi diventarono monosillabici.  Temevo ci fosse qualcosa che non le piacesse in casa. Ma era peggio: le piaceva troppo. 

Per due giorni non ero riuscita a contattarla. Avevo chiesto  a Enrico di provare ad avere notizie. Lei s’era limitata a  rispondergli che la tua amica, a questo punto, dovrebbe aver  capito la situazione

Invece non avevo capito proprio niente, o preferivo non capire. 

Ieri sera Julia aveva inviato un messaggio fatto di lettere e  numeri. L’avevo fatto vedere a Marco. Era sbiancato. 

«Se hai capito di cosa si tratta dimmelo, per favore…» «Non ne sono sicuro, ma… Cerca un po’ sul computer.» Mi dettò la prima sequenza. 

«È una convenzione delle Nazioni Unite sul diritto all’abitare  e…» 

«Ah!» – mi interruppe – «Lascia stare le Nazioni Unite. Quella  è carta straccia. Ti detto il secondo riferimento.» 

«Ma Marco, l’ONU! Come puoi dire che è carta straccia?» «Fidati. Cerca questo numero.» 

Mi dettò un’altra sequenza.  

Leggemmo assieme il testo cui faceva riferimento.

Era una legge del Regno del Belgio. 

«Possibile? Capisci anche tu quello che capisco io?» 

Marco sembrava voler leggere lentamente per allontanare ancora  un minuto il momento in cui prendere atto della realtà. 

Quella stronza ci stava occupando la casa. Legalmente. Ce la voleva squattare, ed era entrata dalla porta principale. Le leggi sembravano dalla sua parte. Se l’era studiata bene. 

Oh Signore. Oh Signore, fa che non sia vero. Oddio no, no, no,  ti prego. Non potevo credere che stesse capitando davvero. Frullavo per la stanza con le mani in testa. 

«Chiamiamo la polizia» – dissi.  

Ma nei film succede sempre che poi fanno da soli. E così  facemmo anche noi. 

«La polizia? E che gli diciamo? Scusate, stavamo affittando  in nero un appartamento, ma la stronza vuole restare. Ci  aiutate a cacciarla, ma poi lasciate perdere il nero e tutto  quanto?» 

«Cosa pensi di fare, allora? Meglio beccarsi una multa per  l’affitto in nero che perdere la casa» – dissi.  

Mi sembrava tutto talmente irreale che recitavo battute come  fossi un’attrice. 

«Dimentichi che la perderemo lo stesso: è una clausola  esplicita del contratto. Siamo fuori in caso di subaffitto. E  perdiamo i tre mesi di caparra.»

Aveva una gran voglia di dirmi te l’avevo detto, ma riuscì a  trattenersi. Anche io mi stavo trattenendo dal dirgli  qualcosa. 

«Te lo ripeto. L’Avvocato ha detto che ha ragione lei. Ha preso  anche informazioni su Julia. Lo fa spesso. Lei intendo: occupa  spesso case. È una pittrice-homeless, lo scrive lei nel suo  stesso sito.» 

«Pittrice-homeless? Sito? Ma che sta succedendo?» 

«Sta succedendo che ci stanno fottendo la casa, Federica. E  noi dobbiamo riuscire a riprendercela. Ho scritto persino a  Julia stessa, e mi ha risposto.» 

«Come, come? Scritto? Quando? Scritto cosa, a quella pazza?» 

«Che saremmo stati anche disposti a darle una mano… A cercarle  una sistemazione… che potevamo mettere a posto le cose. Cose  così.» 

Scrollai la testa, incredula. 

«Non so come tu abbia fatto, davvero. Io vorrei solo  strozzarla. E cosa ha risposto? Mh?» 

«Che parlerà con Enrico stasera.» 

«Ah. Enrico, e perché?» 

«Pare che anche lei abbia un debole per lui. Sono usciti  assieme in questi giorni e…» 

Mi salì una vampata rossa al viso. Non capivo più nulla, e  temevo che fosse invece Marco, quello a capire. Non riuscivo 

a dire più nulla. Restai seduta sul letto, in accappatoio,  inebetita. Marco si mise a fare le valigie. 

Dopo un po’ sembrò buttare lì, distrattamente: 

«Non l’avevi cercato il suo sito, quello di Julia McArthur,  no?» 

Feci segno di no con la testa. 

Fece un sorrisetto. 

«Scendo a fare colazione. Dopo partiamo. Se tutto va bene  domani siamo a casa. Ah, ho usato l’account che avevi fatto  per comunicare ai Fernández la cancellazione.» 

Casa, sibilai. 

Marco passò tutto il viaggio verso l’aeroporto impegnato a  scambiarsi messaggi al telefono. Faceva profondi sospiri prima  di premere invio. 

Io stavo pensando che era proprio quella, la vacanza che  attendevo da quattro anni, e stava finendo con due settimane  di anticipo. E ci stavano occupando la casa. Che avremmo  comunque perso, anche se fossimo riusciti a liberarla. E ci  avrebbero trattenuto tre mesi di caparra, un’enormità. E ci  avrebbero contestato l’affitto in nero, e avremmo dovuto  pagare delle multe. E con l’assegno di ricerca di Marco non  ce l’avremmo mai fatta. 

E nella mia testa c’era una gran confusione, mentre in quella  di Marco chissà cosa.

Avevo limitato i contatti con Enrico, per evitare di sommare  problema e problema. Sentivo che Marco sapeva. 

Atterrati a Zaventem, trovammo la polizia ad aspettarci. Ci presero prima ancora che potessimo recuperare le valigie.  

Nessuno si degnò di spiegarci nulla, fino a che ci fecero salire sul retro di un furgone, dove un Investigatore si  sedette di fronte a noi e disse, senza preamboli: 

«Nel pomeriggio Enrico Bernini ha tentato di introdursi in  casa vostra. A quanto pare aveva le chiavi.» 

«Ma che dite? Come “introdursi”? È un amico» – mi lasciai  scappare. 

«Allora forse dovremmo rileggere meglio, magari assieme,  alcuni messaggi che vi siete scambiati negli ultimi mesi,  signorina. Non so se rientrino nei canoni dell’amicizia.» 

Non riuscii neanche a reagire alla stupidità di quella  provocazione. 

Marco invece sembrava tranquillo, come se quella scena  l’avesse già vista. 

«Non ci avete ancora detto cos’è successo» – disse. 

«Enrico Bernini è stato ucciso con diciassette coltellate.  Abbiamo già raccolto la confessione di Julia McArthur. Che si  trovava n casa vostra.» 

Un vuoto fortissimo si impossessò del mio stomaco. Sentii il  corpo ricoprirsi di sudore. Scoppiai a singhiozzare, quasi  senza respirare. 

Oh Signore, oh Signore… No. No… Enrico…

«La cosa strana signori» – continuò il poliziotto, mentre il  furgone ci portava chissà dove – «Sarà spiegare come mai non  lo abbiate avvisato del pericolo. La McArthur ci ha mostrato  le email nelle quali vi metteva in guardia sulla sua volontà  di perpetrare un omicidio artistico – una “performance” che 

avesse a tema la violazione dell’intimità. Vi aveva scritto  esplicitamente che l’avrebbe fatto. Perché mandare il Bernini  al macello? Lo chiedo soprattutto a lei, signorina, vista la  sua particolare relazione con il defunto, e visto che l’account  era a suo nome…» 

«Rispondi all’Ispettore, cara, sii gentile…» – disse Marco,  glaciale. 

Feci appena in tempo a incrociare il suo sguardo e a capire,  prima di perdere i sensi.

AUTORE

Alessandro Marchi

Nato a Bologna, vivo a Bruxelles.

Dal 1999, prima ancora della Laurea in Storia Contemporanea, ho iniziato a lavorare nella carta stampata. Da lì mi sono impantanato nel mondo della comunicazione, dal quale non sono ancora uscito.

Ho vissuto in Spagna e a Roma, il che voglio credere abbia arricchito di suggestioni le atmosfere delle mie storie. Grazie a loro mi sono ritrovato a bere Borghetti su un divano cacciato in strada con gli ultras del Foggia o davanti ai ruderi della casa dei miei nonni lungo la Linea Gotica.

Contrario alle scorciatoie fino all’autolesionismo, cocciuto, poco diplomatico, ciclista urbano, fondatore di Bologna30, continuo a pensarmi giovane a dispetto della carta d’identità.

Non ho idea di come si faccia una breve biografia brillante.

Scrivere però mi fa stare bene, e questo basta e avanza.

www.alessandromarchi.eu

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