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RIBELLARSI PER IL SISTEMA

Cos’è più triste: un ribelle che fallisce morendo per la sua causa o uno che viene inglobato dal sistema e vede il senso della sua causa diluirsi fino a scomparire? 

Tutto ciò che circonda il tema della ribellione è materia delicata. Se il suo significato viene frainteso la ribellione rischia non soltanto di essere inutile, ma soprattutto controproducente. A volte iniziare ragionando sulle parole è utile a capire in che modo usiamo i concetti che queste parole dovrebbero esprimere. Questo è quello che cercherò di fare con il concetto di ribellione.

La parola “ribellione”

Il termine “ribellione” è relativo al verbo “ribellarsi” che, come tutti i verbi riflessivi, è ambiguo. La riflessività coinvolge il soggetto, un’azione autoriferita che tuttavia richiede sempre un oggetto per eseguirsi. Dal punto di vista linguistico, l’atto della ribellione riguarda quindi in primo luogo chi si ribella. In un certo senso, la ribellione non nasce tanto nell’atto della ribellione, quanto nel pensiero del ribelle, o, meglio ancora, nella sua emozione.

C’è inoltre un’ancora più affascinante ambiguità nelle preposizioni: il popolo si ribella al governo o contro il governo? Si tratta di un movimento dialogico che tende in qualche modo la mano o c’è sempre inevitabilmente la misura dello scontro? Sembrerebbe naturale propendere per la seconda alternativa, sostenere che la ribellione è sempre un atto di scontro, meglio ancora se violento. Eppure, a volte, il ribelle non deve per forza scagliarsi contro il suo oggetto di ribellione: l’adolescente che si ribella ai suoi genitori può alzare la voce, ma può anche fuggire. Insomma, mentre altri termini attigui (”disobbedienza”, “sommossa”, “insurrezione”, “rivoluzione”, “rivolta”…) sembrano incasellarsi per bene in un apparato semantico, fatto di violenza o pacifismo, scontro o allontanamento, la ribellione in senso astratto galleggia su una superficie più indeterminata.

Prendiamo ad esempio la disobbedienza: volendo intendere questo termine nel suo significato più letterale possibile credo che intenda un atto di per sé neutro: la semplice della rottura dell’obbedienza, foss’anche tacita e passiva, nei confronti di una norma, di un pacchetto di norme, o di un sistema interno. La disobbedienza non ha in sé un valore di alcun segno. Può essere orientata all’egoistico tornaconto personale, che prolifica nelle pieghe del sistema stesso; come può essere orientata al sovvertimento di quest’ultimo. Ma anche in questo caso il sovvertimento può essere indirizzato verso la distruzione caotica, il vantaggio individuale – o del proprio gruppo ristretto – o verso la giustizia di tutti. Sono tre casi molto diversi fra di loro. Insomma, sia lo schiavo che fugge dalla sua condizione di schiavitù, sia il delinquente che vuole arricchirsi proliferando nello status quo, sia il rivoluzionario e il disertore sono ugualmente disobbedienti.

Ma se la disobbedienza è strapparsi la flebo dal braccio, la ribellione è farlo nella convinzione che il farmaco sia sbagliato. Dal punto di vista strettamente etimologico (dal latino rebellum) la ribellione indica una vera e propria guerra, non soltanto combattuta, ma ri-combattuta, contro il risultato di una guerra precedente, anche antichissima nel tempo; risultato che si avverte come insoddisfacente. In questo senso la disobbedienza può rappresentare al massimo una battaglia. Per diventare ribellione, per diventare guerra, servono alcuni attributi in più. Ogni ribellione, innanzitutto, è strettamente connessa al proprio sistema.

Ribellarsi per il sistema

Quella che all’apparenza può sembrare una sterile polemica su una questione linguistica, è invece un punto cruciale al centro del tema della ribellione. Un fraintendimento a riguardo non comporta soltanto un disguido teorico, ma rappresenta un pericolo e un ostacolo per tutte le ribellioni reali. Chiarire la natura della ribellione è quindi di importanza radicale.

Innanzitutto, in un certo senso, una volta elaborato il momento soggettivo, la ribellione non si rivolge tanto a un oggetto, con il portato di definizione e connotazione che questo termine comporta, quanto piuttosto a un sistema, qualcosa di più ampio, rizomatico e indefinito. Per quanto i genitori o il governo possano sembrare gli oggetti univoci della ribellione, sono più che altro fenomeni di sistemi come la genitorialità o il potere politico. Più o meno consapevolmente il ribelle intrattiene una relazione con  questi sistemi, è con questi sistemi che fa i conti.

Ciò non sminuisce l’importanza degli oggetti, ma la include in un campo più ampio. Ovviamente l’adolescente si ribella al padre, non alla genitorialità, ma a un livello più profondo e spesso inconscio, lo fa per diventare egli stesso un potenziale padre migliore, ciò a prescindere dal suo effettivo atto procreativo. Il suddito si ribella al monarca per diventare cittadino. 

Mentre l’atto conflittivo in sé può essere disobbedienza, rivolta o sommossa a seconda delle modalità con cui si esplica, e il cambiamento repentino, strutturale e definitivo del sistema si chiama rivoluzione, soltanto il concetto di ribellione è in grado di esprimere quella danza ambigua che sussiste fra ribelle e sistema

Ad ogni modo, se in relazione a un oggetto, l’atto di ribellione è un contro, non lo è quasi mai in riferimento al sistema che quell’oggetto rappresenta. Non è neppure detto che ci si debba ribellare da un sistema, come se si trattasse di una forma di liberazione. Spesso è possibile che la ribellione avvenga per il sistema, a suo favore.

Esistono anche alcuni specifici casi in cui questo tipo di relazione fra ribellione e sistema viene esplicitata. Alcuni sono confinati alle rappresentazioni mediatiche, per le quali l’esplicitazione è asservita a necessità narrative, ma in altri casi queste esplicitazioni sono vere e proprie professioni. È il caso, ad esempio, dei cosiddetti Ethical Hacker.

Ethical Hacker

La nostra società ha un rapporto confuso con la figura dell’hacker. Nell’immaginario collettivo questo “criminale informatico” lavora soltanto di notte, al buio, con il cappuccio sulla testa e la maschera di Anonymous sul volto. Ovviamente, lo scenario è un po’ più complesso. Come per i pirati, gli hacker sono circondati da un’aura mediatica che da un lato li nobilita dall’altra li stereotipizza.

Esistono ovviamente gli hacker sciolti, più o meno anonimi, più o meno organizzati, che mettono le proprie abilità a servizio di nobili cause ribelli. Ma ci sono ovviamente anche hacker che si allontanano da questa figura. Da un lato, ad esempio, abbiamo i cosiddetti hacker black hat: criminali veri e propri che violano sistemi informatici con l’intento di trarre un guadagno da un riscatto, diffondere un virus, distruggere dati o comunque arrecare un danno. Dall’altro lato ci sono i white hat hacker, spesso definiti ethical hacker. Questi ultimi, pur utilizzando le stesse tecniche dei primi, non hanno come obiettivo quello di danneggiare una rete informatica, ma, al contrario, di rafforzarla. Gli hacker white hat vengono direttamente assunti da banche, aziende o altri tipi di enti, con la mansione specifica di tentare di violare i propri sistemi di sicurezza informatica, per poi consegnare un rapporto con tutte le falle riportate. Nell’organico dell’azienda, della banca o dell’ente ci saranno poi una o più figure specializzate in cybersecurity che avranno il compito di proteggere il sistema, rendendo sempre più difficile l’accesso agli hacker. Una sorta di guardia e ladri informatica, codificata e controllata.

In casi come questo è evidente che sia proprio il sistema stesso a beneficiare dal tentativo di ribellione, dall’atto di sfida, addirittura dalla rottura forzata delle regole. Più il tentativo di ribellione buona e programmata, operato però con le stesse strutture tecniche di quella malintenzionata, va a buon fine, più il sistema trova energia per rafforzarsi.

Chiaramente quello appena citato è un caso limite. E si potrebbe anche facilmente obiettare che il lavoro svolto da un Ethical Hacker non sia una vera ribellione, proprio perché svolto di comune accordo con il sistema. Ma lo scopo di questo esempio non è tanto quello di ritrovare l’operatività del modello nella vita reale, quanto suggerire che anche nella vita reale esistono modelli paradigmatici che esplicitano questa struttura.

Hang The DJ

Come sempre accade, lì dove non arriva la realtà ci pensa l’arte, e in particolar modo la narrazione, a modellizzare vari tipi di relazione. Quella fra sistema e ribellione non fa eccezione.

Hang The DJ è un episodio della popolare serie tv britannica Black Mirror, andato in onda per la prima volta nell’inverno del 2017. Come in molti altri episodi della serie, al centro della trama c’è una deriva distopica di una tecnologia contemporanea.

[SPOILER ALERT]

Le relazioni amorose sono gestite da un sistema di intelligenza artificiale chiamato Coach. I protagonisti della storia sono Amy e Frank, accoppiati dal Coach per poco tempo, destinati poi ad altre relazioni disastrose e fatti rincontrare anni dopo. Destinati nuovamente all’abbandono i due decidono di ribellarsi e scappare. A questo punto capiscono che tutta la loro realtà è una simulazione virtuale. Nel mondo reale l’algoritmo di un’app di incontri ha simulato la loro storia per mille volte. Novecento novantotto Amy e Frank si sono ribellati, stabilendo dunque una percentuale di compatibilità del 99.8% fra Amy e Frank in carne ed ossa. Non potrebbe esserci esempio più esplicito.

Soltanto con l’atto di ribellione nei confronti dell’algoritmo i protagonisti di questa storia possono confermare il senso dell’algoritmo stesso, e addirittura la sua efficacia. Il sistema stesso contempla la possibilità della ribellione come suo senso ultimo; e la ribellione, a sua volta, invece di fuggire dal sistema o di lottarci contro, gli è totalmente asservita, esiste affinché il sistema abbia significato.

Un posto al sol dell’avvenire

Facciamo anche un paio di esempi più concreti:

Il primo è quello delle “comunità autogestite”. Con questa espressione s’intendono quelle comunità che si organizzano autonomamente, senza la necessità di una gerarchia o di un’autorità centrale. Queste comunità cercano di creare un sistema alternativo a quello dominante, in cui le decisioni sono prese in modo democratico e le risorse sono condivise equamente. Le comunità autogestite esistono già oggi in tutto il mondo, dalle cooperative agricole ai collettivi urbani, e in molte occasioni rappresentano un’alternativa concreta all’attuale sistema capitalistico occidentale.

Una cosa simile accade con le piattaforme peer-to-peer. Si tratta di sistemi di condivisione e scambio informatici che permettono agli utenti di collaborare in modo diretto, senza l’intermediazione di una qualche forma di centro. Queste piattaforme cercano di creare un sistema in cui le risorse sono condivise equamente e il potere è distribuito in modo più democratico. Esempi di piattaforme peer-to-peer sono BitTorrent e Napster. Sulla stessa ideologia libertaria si basano anche gli usi più contemporanei e popolari della tecnologia blockchain, primo fra tutti l’immensa diffusione delle criptovalute come Bitcoin.

In entrambi i casi risulta evidente come queste forme di ribellione ai sistemi dominanti – società capitalistica, sistema telematico centralizzato –  non abbiano assolutamente come obiettivo quello di distruggere i sistemi in cui operano- società, sistema telematico -ma vogliono modificarne la direzione, l’aggettivo che a quel sistema può essere attaccato.

Entrambi gli esempi, inoltre, dimostrano come il termine “ribellione” non implichi obbligatoriamente il cambiamento completo e definitivo dell’aggettivo in questione, ma possa limitarsi a perseguire la conquista di uno spazio di autonomia e di alternativa nel quale un aggettivo diverso possa avere senso di esistere. In questo senso, si può leggere la ribellione come un gioco di attribuzione di istanze a degli oggetti che già ne possiedono altre, e il conseguente rifiuto dell’imposizione di queste ultime. Ma ciò non comporta obbligatoriamente la distruzione delle istanze preesistenti.

Nei casi citati, la ribellione diventa in un certo senso il sistema stesso, cambiando il senso delle sue funzioni basilari. Tuttavia, questi sistemi devono affrontare molte sfide, come la resistenza dei poteri costituiti, la mancanza di risorse e di supporto e la difficoltà di coinvolgere la maggioranza delle persone nella loro attuazione. Non per questo non sono ribellioni, ma non agiscono per il sistema.

Quando nel 2013 Edward Snowden ha rivelato al mondo il programma di sorveglianza globale messo in atto dalla NSA (National Security Agency) non lo ha fatto perché odiasse gli Stati Uniti o il suo governo. Il suo non era un atto di disobbedienza contro il “Sistema America”. Al contrario, stando alle sue dichiarazioni, Snowden ha deciso di rivelare quelle informazioni al pubblico perché credeva che fosse importante per la società sapere cosa il governo stesse facendo in suo nome. Snowden ha agito in nome della sua lealtà verso i valori costituzionali americani, come libertà e privacy, ha agito contro la malattia del sistema, per la cura dello stesso. La stessa identica cosa avviene nelle proteste di piazza, con la disobbedienza civile. Gli attivisti del Black Lives Matter non sono contro il sistema sicurezza, sono contro la sua deviazione malata rappresentata dalla polizia americana.

Chiaramente è un framework che si può allargare sempre. Gli anarchici si ribellano allo Stato non perché vogliano il caos, la diseguaglianza e il malessere generale, ma perché credono che il sistema gerarchico, di cui fra tutti gli esempi lo Stato è l’epitome, sia un sistema di oppressione dell’uomo sull’uomo.

Non fraintendetemi, ve ne prego

Ho letto Realismo Capitalista di Mark Fisher due volte. L’ho citato, per iscritto e oralmente, molte di più. In materia di teoria politica quel saggio è il mio faro. Se c’è un’utopia che perseguo è il tentativo di uscire dall’angosciante trappola per cui non ci sia più alcuna alternativa, e ogni fantasma di quest’ultima finisca per essere assorbita e inglobata dal sistema dominante. Voglio quindi evitare con tutto me stesso che quanto ho scritto finora possa essere letto come un’apologia reazionaria.

Ritengo che Il There is no alternative di Margaret Thatcher contestato, ma allo stesso tempo confermato, da Fisher riguardi gli aggettivi, non i sostantivi. Quando poneva l’attenzione su esempi come la musica alternative che veniva fagocitata dall’industria culturale mainstream, credo che l’attenzione di Fisher fosse rivolta al mainstream, non all’industria culturale. Il problema non è che la musica indie sia in cima alle classifiche, al fianco di quella pop, il problema è che a distribuirla sia la stessa major che produce e distribuisce la musica pop. Allo stesso modo, il dramma vero non è che la sinistra non sia più in grado di vincere le elezioni, il problema è che quando le vince non è sinistra e attua le stesse politiche neoliberiste degli altri. Ma, a costo di ripetermi, in questo scenario il problema non è il sistema democratico, è il sistema democratico neoliberista, in una società dominata dal capitalismo.

C’è uno strato in più da mettere a fuoco e c’è sempre spazio per aggettivi che si affiancano a sostantivi talmente a lungo da sfumare i confini fra i due, da far credere che non sia possibile sostituire l’aggettivo senza perdere il senso del nome, da far credere che non ci sia più alternativa possibile.

Ripristinare

Ma se “ribellarsi” è un verbo riflessivo, e il focus della ribellione deve essere puntato innanzitutto sul ribelle, torniamo un attimo dentro di lui e vediamo cos’è che lo muove. Sulla base di quello che abbiamo detto precedentemente credo che si possa dire che il ribelle propriamente detto (dunque né il disobbediente, né tanto meno il rivoluzionario) sia mosso soprattutto da un’impellente voglia di ripristino, da un’esigenza di ordine.

Il ribelle è uno che, al pari dell’ossessivo-compulsivo, prova una specie di prurito al notare che le cose sono fuori posto. Quando dunque si rende conto che affianco a un sistema c’è un aggettivo che lui ritiene inadatto, non riesce a resistere e inizia a nascere dentro di lui il moto di ribellione. Certo, se il passaggio dell’aggettivo sbagliato a fianco al sostantivo è soltanto una temporanea contingenza, il ribelle sarebbe anche disposto a tollerarne la presenza, come l’ossessivo può accettare che le sue penne non siano tutte in fila, se le ha spostate un attimo per spolverare. Il problema sussiste quando l’aggettivo inizia a stabilirsi e radicarsi in quel punto dell’espressione, quando al fianco della genitorialità il figlio inizia a riscontrare con un po’ troppa frequenza tratti che non gli piacciono, quando a “società” segue un po’ troppo spesso “capitalista” o “consumista” o “del controllo”. Quando, insomma, l’attributo diventa norma.

Nel senso di sfida alla norma, la ribellione non è quindi un caos contro l’ordine. Sebbene venga comunemente vista come un atto di rottura, la vera ribellione è invece un atto di ricongiunzione e riappacificazione, è la negazione della negazione (quest’ultima rappresentata dalla norma considerata sbagliata) in nome di un positivo unitario e giusto.

Da questo punto di vista è innegabile che uno dei più grandi ribelli della Storia sia stato Gesù Cristo. Egli non ha soltanto diffuso il verbo del Padre; il suo vero atto dirompente fu elevare il concetto di ricongiunzione a norma in sé. Come sottolinea Hegel nei suoi Scritti Teologici Giovanili, in sostituzione alla norma della legge e della punizione, Gesù propose la norma del perdono, l’atto più pacificatore che esista. Il contenuto stesso del ripristino era, ed è tuttora nella più pura fede cristiana, un elemento di ripristino pacifico, in uno slancio di meta-significati raramente raggiunto nella storia.

Per una ribellione efficace

Quando, fra gli anni ‘50 e ‘60 il capitalismo e il consumismo si imposero come egemonici negli Stati Uniti e in tutto l’Occidente effettivamente montò un sentimento di ribellione collettiva, che potremmo chiamare “controculture”, nel senso che Joseph Heath e Andrew Potter assegnano a questa parola nel saggio Rebel Sell. Per gli autori, il movimento Hippie ne è chiaramente l’esempio maggiore. Ebbene, sin da subito nelle intenzioni dei movimenti controculturali non c’era un vero tentativo di contrastare o mettere in discussione l’aggettivo del “sistema”, “capitalista” o “consumista” che fosse; la controcultura si pose fin da subito l’obiettivo di contrastare il “sistema” tout court. Come hanno scritto Heath e Potter, quei movimenti hanno sostanzialmente rifiutato i temi tradizionalmente associati alla sinistra, come povertà, standard di vita e accesso al sistema sanitario perché considerati troppo “superficiali”. (p. 32) La ribellione che contempla l’aggettivo, per come l’abbiamo intesa finora era accusata di superficialità. Allo stato più profondo, quello a cui ribellarsi davvero c’era l’oppressione psichica, da cui liberarsi.

A me pare evidente che l’individualismo tema dell’oppressione psichica, per quanto legittimo e degno di attenzione, non sia altro che il tentativo goffo di attribuire un significato, uno qualunque, a una battaglia persa in partenza, perché combattuta verso un bersaglio sbagliato. Spostando il focus dello scontro su un terreno più profondo si è perso ogni appiglio di concretezza, la conseguenza è stata, secondo Heath e Potter che la controcultura ha quasi completamente sostituito il socialismo alla base del pensiero politico radicale.

Ma i propositi della controcultura hanno dovuto, a un certo punto, fare i conti con i limiti del mondo reale: il fallimento di contrastare un generico sistema ha comportato l’obbligo di tenersi il sistema capitalista e consumista, il quale nel frattempo si è rafforzato inglobando al suo interno le sue stesse contraddizioni. Proprio all’inizio del loro saggio, Heath e Potter scrivono chiaramente che la ribellione culturale non è una minaccia al sistema, è il sistema stesso (p. 8). Più nello specifico l’ideologia Yuppy e quella Hippie si sono rivelate essere la stessa cosa (p. 9), varianti estetiche dello stesso prodotto.

Ancora una volta, è meglio non correre il rischio di vedere in tutto questo discorso astrattezza o inattualità. Quarant’anni fa Robert M. Pirsing, nello splendido Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, lamentava la sterilità dello scontro al “sistema”, che portava dei giovani hippie a rifiutare i principi meccanici di manutenzione della moto. Un principio non troppo distante da quello che oggi, in alcune circoscritte zone del mondo, porta a mettere in discussione la matematica come disciplina in nome della lotta alla diseguaglianza razziale.

Prima di concludere, ci tengo a mettere di nuovo le mani avanti. Il fatto che di recente, da qualche parte in California, siano andati troppo in là con la cancel culture, non significa ovviamente che esista una dittatura del politicamente corretto, come piace gridare ad alcuni nell’enorme megafono delle prime pagine dei quotidiani o della prima serata televisiva.

Significa soltanto che mettere a fuoco i bersagli delle ribellioni è fondamentale, e che attaccare i sistemi in toto spesso comporta il rischio di perdere il buono per salvaguardare il marcio. Quella delle controculture degli anni ‘60 è stata soltanto la prima tappa di un processo di mescolamento ambiguo che negli anni è diventato esponenziale. Ad oggi il ribelle appare spessissimo come una delle opzioni fra cui scegliere, non come il soggetto in grado di ricostruire delle opzioni nuove. Ciò è avvenuto perché per troppo tempo si è creduto che compito della ribellione fosse scardinare tutto dalle fondamenta, radere al suolo. Un’impresa talmente ardita da sconfortare con l’evidenza della propria irrealizzabilità. Ma l’impresa, quella vera, quella della riqualificazione delle alternative, della risemantizzazione della ribellione, della ristrutturazione del sistema – invece che del suo cieco abbattimento – è un’impresa ancora realizzabile, in quanto mai veramente tentata. 

 

FONTI

Mark Fisher, Realismo Capitalista, NERO Editions, Roma 2018

Hegel, Georg W. F. Scritti teologici giovanili, a cura di N. Vaccaro, E. Mirri, Guida, Napoli 1972

Pirsing Robert M. Zen & The Art Of Motorcycle Maintenance, Vintage, London, 2004, prima edizione: 1974 

Heath J. et Potter A., Rebel Sell, Capstone Publishing Limited, Chickester

Hang The DJ, scritto da Charlie Brooker, diretto da Tim Van Patten. Quarto episodio della quarta stagione di Black Mirror. Rilasciato da Netflix il 29 dicembre 2017



PRESENTAZIONE AUTORE

Giuseppe Vignanello lavora con i libri e con i computer. È laureato in Scienze Filosofiche, ma fa il programmatore. Ha studiato soprattutto antropologia filosofica, estetica contemporanea e filosofia dell’arte. Scrive di libri su Il Rifugio dell’Ircocervo, di altre idee e attualità su Atman e altre riviste.

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