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L’ODISSEA MEDIALE

Sono nato nel 1998, nel periodo in cui l’Italia spazzava via le ultime macerie della Prima Repubblica, e l’Europa quelle del Muro di Berlino: il potere americano era ormai straripante, egemonizzava il Vecchio Continente politicamente, economicamente ma anche culturalmente, grazie ai nuovi media ed alle nuove tecnologie. Internet stava iniziando a prendere piede, ma la connessione era ancora lenta e non erano in molti gli italiani che disponevano di un PC. Per questo, chi come me è nato nel ’98, durante l’infanzia utilizzava il computer per scarabocchiare su Paint, consultare Encharta e scrivere qualche sciocchezza in maniera “estetica” con WordArt; il resto del mio tempo (come credo anche degli altri), era monopolizzato dalla televisione.

La televisione per me non era un semplice mezzo di informazione o di svago, ma dettava il mio tempo: sapere che di mattina su Rai 2 trasmettevano i cartoni animati, che poi si spostavano a pranzo su Italia 1, era per me una ricorrenza che trasformavo in un vero e proprio pattern, nei miei tentativi di ordinare la realtà. Ricordo ancora quella sensazione di calma e rassicurazione quando a Settembre, alla fine dell’estate e all’inizio della scuola, ricominciava il palinsesto ordinario: quando finalmente i Simpson tornavano all’ora di pranzo, prima di Dragon Ball, come è sempre stato e come sempre doveva essere.

Per me, la televisione ha anche giocato un ruolo cruciale a livello sociale: quando frequentavo le scuole medie, lungo il triennio 2009-2012, ero il classico adolescente timidissimo, borghese e secchione, quello con lo zaino nuovo di zecca ogni anno e l’astuccio a tre piani fornito di pennarelli funzionanti, le matite di tutti i colori perfettamente temperate e qualsiasi oggetto potesse uscire da una cartolibreria. Passavo le mie giornate a scuola e a casa a studiare e guardare la tv, la strada per me era troppo aggressiva.

I miei compagni di classe invece la strada la vivevano, studiavano poco e venivano a scuola solo con una penna: con loro e tra di loro mi sentivo diverso, e per loro era reciproco (infatti mi escludevano, e a ripensarci forse non avevano poi tutti i torti). L’unica abitudine in comune con loro era guardare la TV, e forse per il fatto che i canali erano solo sette (dato che da La7 in poi ci si addentrava in un mondo aggressivo e sconosciuto), e forse per il fatto che la Rai era noiosa, Rete 4 era per i nonni e Canale 5 era per le mamme, l’unico canale che raggruppava interamente la mia generazione era Italia 1, a prescindere dallo status sociale e dalla regione geografica: sia io, il piccolo borghese snob, che i miei compagni di classe, ragazzi di strada, eravamo accomunati dal guardare Dragon Ball, I Simpson, oppure quelle sit-com che iniziavano alle 15:30.

Il palinsesto universale e standardizzante della TV prescriveva agli italiani gli stessi programmi da guardare: e così io e loro, così diversi, ci avvicinavamo per parlare di Goku, di Cell e Majin Bu, finalmente le distanze sociali e culturali si appiattivano, sentendoci tutti parte di un “qualcosa” che non conoscevamo.

Come detto, siamo nel triennio 2009-2012, e le tecnologie oggi imperanti, allora si manifestavano in forma embrionale: era il periodo in cui il touch-screen ci imbambolava come dei primati di fronte al fuoco, quando esisteva una differenza tra i “telefonini normali” e i “palmari”.

I computer oramai erano presenti in ogni casa, ed io li stavo ri-scoprendo, utilizzandoli non solo per scarabocchiare con Paint, ma per navigare e giocare su Internet. Era il periodo d’oro di “gioco.it” (sito che credo debba la sua fortuna esclusivamente al dominio che occupa), ma anche di Stardoll e soprattutto di (mi è scesa una lacrimuccia a pensarci) Habbo. Lì sì, ho scoperto tanto su come funziona il mondo.

Ma non voglio parlare di questo, ma di quel sito rosso e bianco che tanto prometteva e spulciavo: YouTube. Inizialmente lo utilizzavo come uno strumento per cercare i video sul mio paese, e poi, come un qualsiasi ragazzo della mia generazione, gli AMV di Dragon Ball che avevo visto sul telefono di un qualche mio amico; dopo si è trasformato in un vero e proprio flusso mediatico, dove mi nutrivo voracemente di contenuti sfornati da coloro che avevano iniziato a farsi chiamare youtubers. Iniziavo dalla home page, cliccavo su ciò che mi interessava e propedeuticamente andavo dove mi portavano i “video correlati”, entrando in un tunnel di immagini che spesso mi inghiottiva per ore.

Così ho scoperto Matano, Willwoosh, i the Jackal, e poi Yotobi. Conoscere i suoi video, per la mia crescita e per il mio rapporto con i media, è stato cruciale: non solo per le risate, ma perché è stato il primo canale che mi ha convinto al punto da “iscrivermi”, e forse proprio a scoprire il concetto di “iscrizione”. Infatti il click su quel bottone grigio è stato il primo mattone per la costruzione della mia bolla mediatica: da lì in poi ho iniziato a curare scrupolosamente le mie iscrizioni, scegliendo i canali che mi interessavano, che mi intrattenevano e mi divertivano.

La stessa cura la preservavo per i miei “mi piace” su Facebook: anche questo rapporto iniziò con Dragon Ball, con quelle pagine come “DB Italia” che pubblicavano le foto del fantomatico Goku SSJ di quinto livello, o immagini divertenti sulle puntate trascorse, caratterizzate da una scritta sopra ed una sotto, che chiamavano memes. Scoprì poi che quelle immagini erano rubate da una pagina meno famosa, e, per ripicca, decisi di seguirla togliendo il like a “DB Italia”. Quel tasto fu un portale verso decine di pagine di memes divertenti ed originali, che occuparono gran parte del mio muro su Facebook. Da lì, arrivai ai gruppi, alle community, a quelle piazze virtuali in cui tutti, con mia sorpresa, facevamo parte della stessa bolla, coltivando gli stessi interessi.

Intanto io crescevo, e con me la mia bolla, in un rapporto di mutua interdipendenza: io la limavo e la miglioravo, aggiungendo e rimuovendo likes ed iscrizioni; lei intanto mi consigliava anche gruppi musicali, film o serie televisive, che riempivano la mia televisione ed il mio iPod.

Se c’era una cosa che accomunavano gli youtubers e le pagine che seguivo, e che seguo tutt’ora, era la critica sarcastica: pensiamo a Yotobi e alle sue recensioni, che ridicolizzavano alcuni film taluni sconosciuti, presenti nei palinsesti televisivi italiani; ma anche alla critica ai programmi televisivi trash, tipo Colorado, che muovevano i gruppi di cui facevo parte su Facebook.

Quella critica era ciò che distingueva un ragazzo intelligente da uno che non lo era, e sapere selezionare attentamente i propri interessi musicali o cinematografici, come ascoltare i SOAD e guardare Kubrick, era una condizione necessaria per fare parte della bolla che io stesso avevo costruito, o di quelle community di cui io stesso avevo scelto di far parte.

Non sono sicuro sulla genealogia del mio, di senso critico, se fu condizionato dalla mia bolla mediatica o se ero io a selezionare i miei interessi perché ero già critico; fatto sta che, per sentirmi in linea con ciò che avevo scelto e con ciò che mi condizionava, io la televisione non la guardavo più. Tutti i programmi, indistintamente, erano diventati spazzatura.

E così mi arroccai nella mia tana di interessi, allontanandomi e distanziandomi ulteriormente da chi quegli interessi non li condivideva: la mia bolla mi inglobò totalmente, mi rese un individuo atomico e slegato dalla società che tanto criticavo, e quei ragazzi con cui, tra le mille differenze, riuscivo a creare ponti di comunicazione grazie alla televisione, li avvertì distanti sideralmente da me e da ciò che ero diventato.

Attenzione, la mia non vuole essere un appunto al senso critico, sia chiaro: ciò che sbagliavo era giudicare le persone in base ai loro interessi: guardi Italia 1? Sei una persona banale e stupida, guardi Breaking Bad? Wow, tu sì che sei interessante. Strano pensarci adesso, col fatto che mi cibo indistintamente di spazzatura e roba originale: adesso YouTube e Facebook sono passati di moda, i creators si sono spostati su Instagram e su TikTok, e qui la mia bolla ha ceduto il posto allo strapotere dell’algoritmo. Questa spaccatura è evidente nelle due diciture poste nella parte superiore della piattaforma cinese: da un lato i “seguiti”, dall’altro i “Per te”.

È l’algoritmo che costruisce la bolla, lo lima e lo migliora “per me”: i miei interessi e la mia personalità si riducono ad essere dei freddissimi dati, privandomi così di tutto il lavoro di interazione, lasciandomi passivo come uno zombie a scrollare, condividere, cliccare sui cuoricini. Insomma, siamo tornati a quella passività propria del medium televisivo, ma senza quel palinsesto unico che garantiva degli spunti di discussione con chiunque avesse uno schermo ed un’antenna. Si è persa quell’interattività che comunque mi rendeva un individuo, mi rendeva vivo.

Si è persa anche la qualità dei contenuti: con un telefonino tutti possono diventare content creator, tutti con la stessa possibilità di diventare virali. I professionisti ricercati dall’industria televisiva sono oramai ricordi lontanissimi, ma anche quelle abilità di comunicazione, di riprese e di montaggio richieste agli youtubers sono diventate inutili. E così Instagram e TikTok sono pieni di racconti banali e quotidiani, di come ci si veste e di cosa mangia, a volte con video in bassa definizione e un audio inascoltabile.

Eppure, passivamente, chino la testa e continuo a guardare, privo di senso critico e senza discernere un buon contenuto da uno noioso, ipnotizzato da un flusso di contenuti così veloce che non mi dà tregua. Adesso vivo tra un reel e un altro, un TikTok e un altro, tra quelli banali e cringe a quelli divertenti ed originali, ma che scelgo di guardare indistintamente.

Wikipedia raggruppa tutti i nati dal 1997 sino al 2012 entro la categoria della Generazione Z, quella dei “nativi digitali”: chi con le nuove tecnologie ci è cresciuto e dunque ha una certa predisposizione cognitiva a utilizzarle. A parer mio questa categoria è troppo estesa: ad esempio, già i 2006 sono cresciuti in un periodo in cui la televisione perdeva il proprio potere, dando spazio ai nuovi media digitali, e non possono ricordarsi dei cellulari pre-smartphone, della tariffa Wind dei 4000 messaggi e delle tristi conseguenze sociali che subivi se non riuscivi a finirli tutti. Per non parlare delle personate nate dopo il 2012, la loro socializzazione è già segnata dall’algoritmo, saltando a piè pari quei social che hanno influenzato la mia, di socializzazione, come YouTube e Facebook.

Per questo inserirei nella Generazione Z chi è cresciuto con i media e le nuove tecnologie, vivendone la storia e la rapidissima evoluzione: quelli nati dal ’97 sino al 2002. Una generazione che come è cresciuta e si è adattata ai nuovi media, intrattenuta anche dai nuovi flussi di immagini proposte dagli algoritmi muovendosi negli spazi degli attuali teenager; ma che inizia a sentire il peso della propria storia, provando quella sensazione prima sconosciuta e che veniva attribuita solo ai boomer: la nostalgia.

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