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LA RIBALTA DEL CINEMA GIAPPONESE: DRIVE MY CAR

Ci sono molti modi per raccontare una storia, infiniti potremmo dire, e poi ci sono quei registi che hanno uno stile tutto loro, raro. Persone che comunicano in maniera unica, tagliente e sensibile da non lasciare indifferente lo spettatore. È il caso di Ryūsuke Hamaguchi, regista giapponese che con il suo ultimo film, Drive My Car, è riuscito a toccare le corde più profonde dell’animo umano. Hamaguchi si è sempre contraddistinto per il suo stile cinematografico fuori dagli schemi e dalle convenzioni. Il successo da parte della critica arriva con il suo quinto lungometraggio, Happīawā, premiato con il Pardo per la migliore interpretazione femminile al Festival di Locarno del 2015. La pellicola suscitò parecchio clamore per la sua lunghezza: ben cinque ore di film, e il tutto recitato da attori non professionisti. Con Il gioco dell’amore e della fantasia (2021), arriva la consacrazione definitiva per il regista giapponese, presentato al 71º Festival di Berlino, dove si è aggiudicato l’Orso d’argento, gran premio della giuria. Il film, diviso in tre differenti racconti tra loro, è l’inizio di una serie di storie antologiche, che nella mente del regista sono le prime di sette. Drive My Car è il secondo adattamento letterario di Hamaguchi, nel 2018 era uscito nelle sale con il film Netemo sametemo, tratto dall’omonimo romanzo di Tomoka Shibasaki. 

Drive My Car, invece, attinge dall’omonimo racconto di Haruki Murakami, il più importante scrittore giapponese vivente, e ad altre due storie: Scheherazade e Kino, tutte contenute nella raccolta Uomini senza donne. Quando Hamaguchi ha inviato nel dettaglio il progetto a Murakami, lo scrittore non ha risposto al giovane regista per molto tempo. Solamente dopo sei mesi Murakami ha dato il suo consenso alla realizzazione del film, con una risposta stringente e senza aggiungere commenti. Murakami non concede quasi mai i diritti dei suoi romanzi, ma con Drive My Car sapeva che i suoi testi sarebbero finiti in buone mani.Vincitore del Prix du scénario al 74º Festival di Cannes, del Golden Globe per il miglior film in lingua straniera, e vincitore del premio Oscar come Miglior Film Internazionale, Drive My Car ha unito critica e non solo, in un vortice incessante di emozioni e pulsioni.

La storia racconta di Yūsuke Kafuku, interpretato da Hidetoshi Nishijima, gli amanti del cinema giapponese lo ricorderanno per il film Dolls del regista Takeshi Kitano, in cui interpretava il personaggio di Matsumoto. Yūsuke è un attore e regista teatrale, vive felicemente con sua moglie Oto (Reika Kirishima), ex attrice e sceneggiatrice per una TV nazionale. Il loro è un amore passionale e viscerale, segnato da una complementarità profonda. Lui le ricorda le storie per la televisione che Oto concepisce dopo il sesso, mentre lei registra i dialoghi degli spettacoli teatrali di Yūsuke, in modo che lui possa imparare le battute. Dopo un volo aereo cancellato causa maltempo, Yūsuke ritorna a casa e scopre Oto che lo tradisce con un ragazzo, lo stesso giovane attore presentato pochi giorni prima proprio al marito. Yūsuke farà finta di niente. Preferisce non affrontare l’argomento per paura di litigare e poter perdere la persona che più di ogni altro ama. L’eventualità che tutto questo possa avverarsi è troppo rischiosa e non ne varrebbe la pena. E se il cinema fosse come la boxe, Hamaguchi avrebbe il dono più prezioso, la capacità di sferrare un colpo da ko quando l’avversario meno se lo aspetta.

Difatti Yūsuke perderà Oto a causa di un’emorragia celebrale, e senza il suo amore crollerà. D’altronde come si può vivere con un cuore spezzato? Questa separazione lo renderà inerme e disarmato. L’angoscia da sopportare è talmente forte che durante uno spettacolo teatrale, interpretando Zio Vanja del drammaturgo russo Chekhov, il suo corpo e la sua mente si arrendono, il dolore da sopportare è talmente dirompente che la nevrastenia prenderà il sopravvento. 

Ognuno reagisce a modo proprio ad un lutto, specialmente nell’elaborazione e nel superamento. Non c’è un’unica via o soluzione a tale problema, c’è il tempo. E il tempo è sempre un nostro alleato. C’è chi per superare un lutto ha bisogno di fuggire, di scappare dal luogo in cui si è coltivato il trauma, “il primo passo non ti porta dove vuoi, ti toglie da dove sei”, scriveva Jodorowsky. C’è chi si rifugia nella mondanità della vita moderna, e chi sfrutta questi momenti di dolore per lavorare su sé stesso, per migliorarsi, per essere una persona migliore per gli altri, ma soprattutto per sé stessi. Non c’è nessuna tempistica o schema definito per elaborare un trauma, qualsiasi esso sia. “Accettando il fallimento ci liberiamo dalle nevrosi”, sosteneva Freud. Questo è il messaggio che il regista Hamaguchi ha cercato di comunicare al pubblico.

Dopo due anni, Yūsuke si trasferisce a Hiroshima per dirigere lo stesso spettacolo teatrale che anni prima non era riuscito a concludere. Da quel momento aveva messo in pausa la sua vita. Oggi, però, Yūsuke è pronto per affrontare un lungo viaggio alla scoperta di sé, rivivendo il passato e sapendo che nulla si può cancellare. L’incontro con Misaki (Tôko Miura), un autista affidatagli dalla compagnia teatrale, creerà un legame talmente forte tra i due da stravolgere la vita di entrambi. I loro continui viaggi in macchina, dentro una Saab 900 Turbo rossa del 1987, ci accompagneranno per tutta la durata del film e nei giorni successivi. Misaki prenderà il comando dell’auto del regista e in questi dialoghi così profondi è racchiuso il fulcro e l’anima del film. Se vi aspettate un racconto immerso nel caos delle metropoli giapponesi rimarrete delusi, Hamaguchi ci trasporterà in una dimensione intimista di stampo esistenziale, attraverso una sceneggiatura che sa essere delicata e spietata allo stesso tempo.

Il cinema giapponese, specialmente negli ultimi anni, ha dedicato molta attenzione a grandi tematiche sociali, economiche e sessuali a cui né il nostro cinema né quello hollywoodiano ci hanno più abituato. Per molti registi giapponesi alcune tematiche come il matrimonio, la famiglia e la monogamia non sono più un tabù da sottacere, anzi, questi argomenti così vasti e delicati vengono letti sotto una luce progressista, in netto contrasto con la morale occidentale che implica un sentimento di vergogna e senso di colpa per certi tipi di comportamento.

Il regista giapponese Hirokazu Kore’eda è un esempio lampante di questo nuovo modo di ripensare alle grandi istituzioni della nostra società, raccontandole dietro ad una macchina da presa per renderle indelebili. Nel film Father and son (2013), Kore’eda si interroga in maniera filosofica sulla figura del genitore e sul rapporto con i propri figli, anche nel film Un affare di famiglia, vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes del 2018, il ruolo della famiglia tradizionale viene ribaltato e messo in discussione. Perché catalogare il concetto di famiglia? Perché privilegiare la parentela biologica e svilire quella putativa? O addirittura, perché non scegliersela una famiglia? 

Questi film, oltre ad essere travolgenti da un punto di vista fotografico e scenografico, sono spinti da un vento di criticità e di aria fresca nel panorama cinematografico mondiale, ma non solo. Rispondono a molte domande che si pongono oggigiorno le persone. Molto spesso le strutture portanti delle narrazioni di questi film non si concentrano sulla trama, sono i personaggi che ruotano intorno ad essa ad approfondire i temi che il regista ha intenzione di trattare.

E in Drive My Car c’è tutto questo. La storia di un uomo che perde la donna amata, il suo più grande tesoro, ma nonostante ciò combatte, accetta le difficoltà del passato rivivendo i suoi ricordi più sofferenti in questi dialoghi terapeutici con Misaki. E sempre in sella alla sua Saab 900 Turbo, compagna fedele e rassicurante, o come la definisce il regista Hamaguchi: “Un luogo, in realtà, un non-luogo che ci aiuta a scoprire aspetti di noi stessi mai mostrati a nessuno. O pensieri che, prima, non sapevamo esprimere con le parole”. È proprio questo racconto incessante, intimo e crudele che rende Drive My Car una delle pellicole più importanti degli ultimi anni, e consacra definitivamente il cinema giapponese nell’olimpo cinematografico. Yūsuke non si è arreso. Al contrario, è tornato alla carica. Ricade, si risolleva, una volta e una volta ancora. Come sono gloriose queste sconfitte. Dicono un gran bene dell’uomo. Come lo fanno crescere.

 
 

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