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INTERVISTA A GUIDO SALVINI

 

TESTIMONIANZE

Guido Salvini[1]

(G.I.P presso il Tribunale di Milano, ex Giudice Istruttore)

 

In che contesto politico interno e internazionale si colloca la strage di piazza Fontana?

 

 

Il quinquennio 1969-1974 è stato il periodo cruciale e più sanguinoso, l’apice della strategia della tensione. In Italia si verificano ben cinque stragi, c’è stato  il tentativo di colpo di Stato del principe Valerio Borghese seguito da altri progetti durati fino al 1974, c’è infine un attentato a danno dei Carabinieri, quello di Peteano, con tre vittime, del maggio ‘72

 

Nel 1969 il governo era un debole monocolore guidato dall’on. Rumor che si muoveva in una situazione incandescente per il rinnovo dei più importanti contratti e la mobilitazione quindi di centinaia di migliaia di operai, iniziava la protesta studentesca nei licei e nelle università con un anno di ritardo rispetto al 1968 francese. Erano poi in discussione riforme decisive come lo Statuto dei Lavoratori, l’approvazione del sistema delle Regioni, la riforma delle pensioni, la legge sul divorzio

Nixon era il presidente gli Stati Uniti ed erano gli anni della dottrina Kissinger, quella secondo cui i governi italiani di centro dovevano respingere ogni ipotesi di accordo con il PCI e le forze di sinistra. Ricordiamo che il 27 febbraio 1969 il presidente della Repubblica americano aveva incontrato al Quirinale il presidente Saragat e secondo un dossier contenuto negli archivi di Washington e desegretato il Presidente italiano aveva concordato con quello americano sul “pericolo comunista” e sul fatto che agli occhi degli italiani il PCI si faceva passare per un partito rispettabile ma era sempre legato agli interessi del Cremlino.

Il giorno della visita del presidente Nixon a Roma la città era blindata, erano scoppiati gravissimi incidenti tra la polizia ed extraparlamentari di sinistra e poi all’Università scontri tra questi ultimi e militanti dell’estrema destra. Vi era stata la prima vittima di quell’anno, Domenico Congedo, uno studente anarchico, che durante un attacco dei fascisti alla facoltà di Magistero era precipitato da una finestra.

In quegli anni si combatteva in Africa, in Indocina, in Sud America con ogni tipo di armi e con ogni mezzo, al fine di ampliare le proprie sfere di influenza giustificando da entrambe le parti le proprie “operazioni sporche” come azioni difensive.

 

Non sembra un caso che la stagione delle stragi si collochi proprio in questo quadro interno e internazionale e coincida quasi perfettamente con la durata della presidenza Nixon per declinare poi  nel 1974 dopo la crisi del Watergate e lo sfaldarsi dei regimi dittatoriali in Europa: la Grecia, la Spagna il Portogallo con il conseguente venir meno dell’ipotesi di un colpo di Stato anche in Italia ispirato a quelle esperienze.

Piazza Fontana si colloca in questo quadro, preceduta dall’aprile di quell’anno da una impressionante progressione di ben 17 attentati, per i quali tra l’altro gli esponenti della cellula padovana sono stati condannati, contro sedi giudiziarie, università, uffici pubblici e la Fiera Campionaria di Milano.

 

 

Cosa ci può dire dell’esito delle indagini che lei e altri colleghi avete riaperto negli anni 90?

 

Le indagini milanesi degli anni ’90 non sono state affatto inutili. Anche le sentenze di assoluzione in secondo grado hanno una “virtù segreta” e cioè affermano esplicitamente responsabilità. Scrivono che colpevole era Carlo Digilio, partecipe alla fase organizzativa e alla strage e alla preparazione dell’esplosivo. Fu lui a fornire gli ordigni agli esecutori di tutti gli attentati del 1969 e di quello di piazza Fontana e a dare la consulenza tecnica ai militanti ordinovisti che dovevano operare. E la sentenza di prescrizione per il delitto di strage pronunciata nei suoi confronti in ragione della collaborazione è divenuta definitiva. Quindi, diversamente da quanto spesso si sente, un colpevole giudiziariamente accertato c’è.

Inoltre, sempre nelle sentenze si legge che l’ideazione e l’esecuzione della strage era sicuramente riferibile alle cellule di Ordine Nuovo del Veneto e che nei confronti di Freda e Ventura era stata raggiunta, con i nuovi elementi raccolti, la prova “postuma” della loro colpevolezza anche se essi non erano più giudicabili perché assolti per insufficienza di prove nei processi precedenti.

Quindi Ordine Nuovo è l’artefice della strage di piazza Fontana così come degli attentati che l’hanno preceduta. La paternità degli eventi di quella stagione di sangue è ormai sul piano storico-giudiziario definitivamente accertata.

È questa la base minima, sul piano storico-giudiziario, che non può essere messa in discussione.

 

Come ha lavorato in quegli anni quanto ha contato la tecnologia, quanto la memoria….

 

La tecnologia ben poco, non c’erano i mezzi di oggi. All’inizio non avevamo nemmeno un computer né un archivio. La magistratura di Milano, dopo il trasferimento del processo a Catanzaro, aveva smesso di indagare ormai da molti anni. Ci siamo ricostruiti un archivio da soli, io e il maresciallo Russo della G. di F. che lavorava con me, recuperando gli atti dei vecchi processi, le informative riservate, cercando i vecchi interrogatori e facendone di nuovi, sviluppando gli spunti che all’epoca non era stato possibile approfondire. È stato un lavoro artigianale. Pensi che le varie cartelline, le schede sui personaggi, le compilavamo io e il maresciallo anche a mano. C’era stata sino a quel momento quasi una resa della magistratura di fronte ai fallimenti precedenti. La voglia di riannodare questi fili, grazie alla nuova disponibilità di testimoni a raccontare una volta venuto meno il controllo degli apparati, è ricominciata sull’onda del “caso Gladio”. Non perché quella struttura fosse responsabile delle stragi, ma perché abbiamo capito che se emergeva una vicenda di così grande valenza voleva dire che il momento era venuto e che esisteva lo spazio per riprendere i fili del passato. Sono anni che ricordo con una certa emozione.

 

Tornando all’esito delle indagini, quali erano gli obiettivi strategici della strage ?

 

Vincenzo Vinciguerra, nella ricostruzione della sua militanza in Ordine Nuovo, ha richiamato per la prima volta l’attenzione sull’adunata indetta dal MSI per domenica 14 dicembre a Roma e che con grande enfasi nelle settimane precedenti era stata pubblicizzata come “appuntamento con la nazione”. Vinciguerra ha spiegato che l’adunata e la scelta della sua data erano collegate a quanto, a conoscenza evidentemente dei livelli più alti, era previsto avvenisse due giorni prima.

Certamente 48 ore dopo la strage di Milano e le bombe di Roma, era un lasso di tempo giusto per far montare al massimo la tensione, Roma sarebbe stata piena di militanti di destra in assetto di scontro che invocavano interventi contro la sovversione. Sarebbe bastato una scintilla per far scoppiare incidenti incontrollabili, assalti alle sedi di sinistra, reazioni di quest’ultima, scontri con la Polizia magari con morti tra le Forze dell’ordine per rendere inevitabile la dichiarazione dello stato di emergenza, obiettivo prefissato della strage. Questo era il piano.

Tuttavia il 13 dicembre, quando Vinciguerra con gli ordinovisti arrivati da tutta Italia, era già a Roma, il Ministro dell’Interno aveva vietato la manifestazione e il tentativo di innescare gravissimi disordini ha fallito.

L’adunata del 14 dicembre è un altro aspetto quindi, che in passato non era venuto alla luce, del progetto politico che accompagnava la strage.

 

 

 

Come si affiancano alle stragi di quegli anni anche progetti golpisti per i quali le stragi dovevano fungere da detonatore ?

 

Sì, soprattutto il Golpe Borghese. Nel settembre 1969 uno degli uomini del Fronte Nazionale di Borghese, nel contempo informatore del SID, aveva riferito che, secondo il Principe, “la riuscita del colpo di Stato è certa” e che è già stato studiato “un piano di provocazione con una serie di grossi attentati dinamitardi per fare in modo che l’intervento armato di destra potesse verificarsi in un clima di riprovazione generale nei confronti dei criminali rossi”.

Quello che è contenuto in tale informativa è né più né meno ciò in cui consisteva il piano del principe Borghese, un progetto tutt’altro che da operetta ordito da un manipolo di esaltati e da qualche generale in pensione, come invece lo si è voluto far passare.

Le indagini milanesi infatti raccontano, con testimonianze concordanti, di gruppi pronti ad entrare in azione la notte fra il 7 e l’8 dicembre 1970 in tutte le regioni d’Italia, dal Lazio al Veneto dall’Umbria alla Toscana alla Calabria. In più il capitano del SID Antonio Labruna, che aveva registrato una serie di colloqui con uno dei capi dei congiurati, l’imprenditore romano Orlandini, ha portato dopo tanti anni a Milano nel mio ufficio, nel 1990, gli originali dei nastri che aveva conservato. Dalla loro trascrizione è risultato che i nastri trasmessi invece alla magistratura negli anni ‘70 erano stati alleggeriti dei nomi più importanti dei congiurati coinvolti e cioè quelli degli alti ufficiali destinati comunque ad una brillante carriera e quello di Licio Gelli il cui compito quella notte era di entrare in Quirinale e neutralizzare il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. 

 

Sono emersi nella sua indagine anche elementi che riportano alla consapevolezza di quanto stava avvenendo da parte dei Servizi di sicurezza americani ….

 

Sì, uno degli elementi di maggiore novità dell’indagine e di cui si è parlato poco è stato certamente il racconto del collaboratore Carlo Digilio che ha narrato di essere stato non solo un ordinovista ma un informatore dei Servizi di sicurezza interni alle basi americane del Veneto, in particolare quella di Verona, dalle quali entrava e usciva relazionando sulle attività della sua cellula. In questo doppio ruolo riferiva agli Ufficiali americani suoi referenti dei progetti di attentati, in crescendo, di Ordine Nuovo del Veneto e otteneva risposte che potremmo definire “tranquillizzanti”. In sostanza certe azioni andavano bene perché servivano a mantenere un “giusto” grado di tensione.

 

Fu lo stesso Digilio a recarsi il 12 dicembre immediatamente alla base Nato di Verona per riferire sul ruolo avuto dal suo gruppo negli attentati di quel giorno.

L’atteggiamento dei Servizi di sicurezza americani può quindi essere definito di “controllo senza repressione”. Un atteggiamento se non di ispirazione di una strategia certo di accettazione della stessa e questo ovviamente senza informare le Autorità italiane affinché adottassero misure contro i pericoli che correvano i nostri cittadini.

Questo ruolo di “osservatori benevoli”, al limite della cobelligeranza, in eventi via via più gravi ricoperto dai nostri alleati fa entrare in un piano di realtà quello che sembrava solo uno slogan da bollettino di contro-informazione politica: strage di Stato con colpe degli U.S.A. Certamente si può ora affermare che il 12 dicembre 1969 è avvenuta una strage se non voluta accettata da molti, anche al di là dei nostri confini.

 

 

 

La storia delle indagini sulle stragi di estrema destra è anche quella degli occultamenti e dei depistaggi da parte dei Servizi segreti…

 

Sì, c’è stato un muro opposto alle investigazioni dell’autorità giudiziaria almeno sino alla fine degli anni ‘80 dai Servizi di sicurezza e dagli alti livelli degli organi investigativi, Polizia e Carabinieri. Tale attività ostruzionistica e di depistaggio ha avuto carattere non occasionale ma sistematico. Basti ricordare tra i tanti esempi possibili, la fuga all’estero di indiziati importanti per la  strage di piazza Fontana, quali l’agente del SID Guido Giannettini e di Marco Pozzan, uno dei collaboratori di Freda, organizzata con tanto di documenti falsi procurati dai vertici del SID, la sparizione di reperti nella stessa indagine sulla strage di piazza Fontana, l’omessa segnalazione all’autorità giudiziaria di quanto stava raccontando al SID Maurizio Tramonte, l’informatore Tritone, nei giorni della strage di Brescia. Ed ancora l’alterazione ad opera dei Carabinieri dei reperti provenienti dall’attentato di Peteano e la potatura dei nastri contenenti i dialoghi del capitano La Bruna con i congiurati del golpe Borghese dai quali i vertici del SID, d’intesa con l’autorità politica del tempo, avevano espunto i nomi di maggior rilievo. E si potrebbe continuare.

 

 

Ma la sua indagine ha incontrato anche molte difficoltà che non venivano solo dall’esterno ma anche dall’interno della magistratura. Ce lo vuole raccontare?

 

C’è la storia vergognosa delle gelosie e le invidie, ben oltre la semplice mancanza di collaborazione, che hanno segnato il rapporto tra i magistrati che negli anni ’90 indagavano sui vari episodi di strage.

 

Mi riferisco alla vera e propria della persecuzione giudiziaria durata per più di sei anni contro di me, allora Giudice Istruttore, una persecuzione sempre taciuta anche a distanza di tanti anni, per vergogna e autocensura, una delle pagine più nere della magistratura ma che ho interamente raccontato nel libro La maledizione di piazza Fontana, scritto con Andrea Sceresini e pubblicato da Chiarelettere nel 2019, il cinquantenario della strage.  

Detto in sintesi, e rimando per il resto a tale narrazione, la Procura di Venezia nella persona del dr. Felice Casson non aveva gradito che le nuove indagini milanesi non confermassero il presunto coinvolgimento di Gladio nelle stragi, tesi che aveva sostenuto con enfasi anche se prevalentemente in forma mediatica e non giudiziaria. Ancor meno aveva gradito che le indagini milanesi avessero fatto breccia proprio sull’ambiente ordinovista di Venezia e Mestre su cui tale Procura aveva indagato, negli anni precedenti con risultati molto minori.

È accaduto, in questo scenario personalistico, siamo nel 1995, qualcosa che oggi può apparire incredibile eppure è successo così come lo racconto. Il dr. Casson ha coltivato ostinatamente un esposto fasullo contro di me, ispirato e pagato da Delfo Zorzi e presentato dal capo ordinovista Carlo Maria Maggi, indagati in quel momento per la strage di piazza Fontana, con la conseguente incriminazione da parte dello stesso Casson mia e di chi lavorava con me sul fronte dell’eversione nera. A tale inconcepibile iniziativa erano seguite una serie di segnalazioni disciplinari al CSM, tutte rivelatesi false e infondate, e addirittura il tentativo, per fortuna non riuscito, di farmi trasferire d’ufficio da Milano. Tali iniziative, pur sconfitte, hanno però causato per lungo tempo la delegittimazione della mia istruttoria dinanzi ai testimoni e agli indagati e colpito a morte lo sviluppo dell’indagine su piazza Fontana.

Sono state iniziative inquinanti, hanno trovato sponda nella Procura di Milano che non aveva mai svolto alcuna indagine sulla strage ma non disdegnava di appropriarsi delle indagini altrui e si sono rovesciate sulla mia istruttoria, interrompendola e quasi paralizzandola proprio nei momenti decisivi e risolvendosi in una ciambella di salvataggio per gli ordinovisti sotto accusa. Detto in parole semplici la Procura, cercando addirittura di mandarmi via da Milano, voleva impadronirsi delle mie indagini ma nel contempo non le sapeva fare, come ha dimostrato la sua incapacità di costruire un rapporto di fiducia con i collaboratori e i testimoni e di vedere prove, che come tra poco dirò, avevano sotto il naso.

 

Per fortuna anche nel suo libro lei ricorda che non con tutti colleghi andò così ….

 

Sì, per fortuna la collaborazione con la Procura di Brescia è stata proficua e continua negli anni. E a Brescia c’è stata la condanna definitiva all’ergastolo per la strage di Piazza della Loggia nei confronti del capo ordinovista Carlo Maria Maggi e di Maurizio Tramonte, l’informatore del SID che aveva partecipato alle riunioni preparatorie della strage.

 L’indagine bresciana toccava lo stesso ambiente e si basava sugli stessi testimoni presenti in quella di piazza Fontana e l’esito diverso dei due processi testimonia le conseguenze nefaste dell’inettitudine, della presunzione e della volontà di far sorgere conflitti tra magistrati con cui la Procura di Milano ha trattato la strage del 12 dicembre.

C’è stata qualche reazione dopo la pubblicazione del suo libro ?

Nessuna, se non di apprezzamento da parte di molti lettori e studiosi. Nessuno di coloro che ho indicato come responsabili all’interno della magistratura  dei disastri commessi durante le indagini sulla strage ha osato reagire, nonostante la gravità delle accuse che ho mosso, con una querela o anche semplicemente con un articolo o un intervento di risposta. Questo per la semplice ragione che quello che ho scritto era tutto vero e documentato e non poteva essere smentito.

 

Ma il suo libro contiene anche nuove prove…

 

Sì, Andrea Sceresini ed io abbiamo continuato a lavorare anche dopo la sentenza definitiva della Cassazione del 2005 su piste non seguite fino in fondo e su nuovi testimoni che hanno aggiunto importanti elementi di verità sulla strage che confermano pienamente l’esattezza della ricostruzione della mia istruttoria. Abbiamo continuato il lavoro che altri non hanno fatto.

 

Nel libro c’è ad esempio la storia del casolare.

Carlo Digilio aveva parlato della base logistica vicino a Treviso, a Paese, un casolare isolato in campagna gestito dal gruppo di Mestre–Venezia, quindi da lui stesso Maggi, Zorzi e da quello di Padova con Ventura che aveva affittato questo casolare, in cui c’era la santabarbara di Ordine Nuovo con armi ed esplosivi di tutti i tipi. Lì erano stati preparati gli ordigni per tutta la catena di attentati del 1969. Purtroppo quel casolare non era stato trovato e la Corte di Assise di Appello aveva motivato le assoluzioni soprattutto sul fatto che questa parte centrale del racconto Digilio non aveva avuto conferma. Siamo andati a vedere gli atti che la Procura di Milano aveva fotocopiato a Catanzaro e in uno di questi faldoni, c’era un reperto importantissimo, l’agenda di Ventura del 1969, che nessuno però aveva mai esaminato.

Nell’agenda c’era una serie di appunti con scritto “Digilio-Paese”, quindi Ventura incontrava in quel luogo, e il nome dell’avvocato che per conto di Ventura aveva fatto il contratto del casolare

Con questi dati abbiamo trovato subito il casolare che sta ancora là nella zona indicata da Digilio. Non solo, l’avvocato ha raccontato che il proprietario era andato a controllare i locali in assenza degli inquilini e aveva trovato un pacco di armi.

Quindi Digilio aveva detto totalmente il vero e se il casolare fosse stato scoperto prima della sentenza definitiva, in realtà per scoprirlo bastava solo che la Procura leggesse i suoi atti perché aveva la prova regina davanti agli occhi, quasi certamente le assoluzioni non ci sarebbero state.

Siamo anche andati a cercare Gianpaolo Stimamiglio, ex-ordinovista di Verona, amico di Giovanni Ventura sin da quando frequentavano  insieme lo stesso collegio cattolico. Attualmente vive in una località protetta e ci ha raccontato di aver conosciuto anche lui il casolare di Paese e che quando nel 1994 aveva incontrato in Argentina Ventura per l’ultima volta questi gli aveva confermato che Delfo Zorzi era coinvolto negli attentati del 12 dicembre

 

Ancora una volta prove arrivate troppo tardi

 

Addirittura dopo la sentenza sono emersi molti nuovi elementi di accusa a carico della cellula padovana di cui ci ha parlato un suo militante, Gianni Casalini, in un lungo racconto che ci ha reso poco prima di morire. Casalini racconta di un arsenale, con esplosivi, del gruppo alla periferia di Padova. Un arsenale tuttora esistente in quanto era collocato in un terreno che allora era a prato e su cui adesso sono costruite alcune villette. Un arsenale quindi che sta ancora lì da quarant’anni. Gianni Casalini ha anche narrato, in un racconto dettagliato, di aver partecipato personalmente, inviato dalla cellula padovana insieme a Ivano Toniolo, luogotenente di Freda, a 2 dei 10 attentati ai treni della notte dei fuochi dell’8 agosto 1969, quelli in cui due ordigni furono collocati su convogli alla Stazione Centrale di Milano

 

Di grande rilievo è il fatto che Gianni Casalini avesse rivelato spontaneamente ai funzionari del SID di Padova già a metà degli anni ’70 molto di quello che avevo commesso la cellula padovana. Ma il gen. Maletti vicecapo del SID a Roma, aveva impedito che tali informazioni giungessero alla magistratura dando esplicite disposizioni al livello periferico di Padova di “chiudere la fonte”, come risulta da un manoscritto autografo sequestrato nella sua abitazione nel 1980 subito dopo la sua fuga in Sudafrica. Una soppressione di prove in piena regola.

 

Ancora, il 31 dicembre 1997, proprio l’ultimo giorno della mia istruttoria, Carlo Digilio mi aveva finalmente rivelato il nome dell’autista di piazza Fontana, di colui che aveva portato in auto il gruppo da Mestre a Padova e poi a Milano. Era Gianni Mariga, componente della cellula di Ordine Nuovo di Mestre e autista di professione.

Già a metà degli anni ‘70 Mariga si era prudentemente allontanato da Mestre e si era arruolato nella Legione Straniera francese in cui, sotto falso nome, aveva prestato servizio per molti anni.

Lo abbiamo cercato e abbiamo scoperto che nel 1998, ormai in congedo, proprio quando il processo di piazza Fontana era in corso, si era suicidato gettandosi nel fiume Rodano. Abbiamo parlato a lungo in Francia con la moglie e questa ci ha raccontato che il marito era in uno stato di grave depressione, teneva qualcosa cosa dentro di sé e che in Italia aveva commesso una cosa molto grave di cui non si poteva parlare. Eppure, nonostante fosse noto ove abitasse, la Procura, che era ancora in tempo, non  è mai andata a sentirlo.

 

Qual è in conclusione il messaggio della sua inchiesta, al di là dei processi? È stato tutto compreso o c’è ancora qualcosa da scoprire?

Restano ancora in parte oscuri i beneficiari politici. Il mandante spinge apertamente o ordina a qualcuno di compiere una determinata azione. Il beneficiario è qualcosa di diverso, sa che tu stai compiendo un attentato, ti instrada senza che tu lo sappia, ottenendo così un suo obiettivo dal punto di vista politico. Ma molti dei personaggi della politica italiana di quegli anni sono morti. È quasi impossibile oggi sapere qualcosa di più. Lo stesso racconto di Paolo Emilio Taviani, che ha narrato che gli alti vertici militari sapevano tutto, è rimasto troncato a metà dalla sua morte. Comunque è stato possibile ottenere una verità giudiziaria seppure parziale e a prescindere dall’esecuzione delle pene che è, in fondo, un aspetto secondario. Come abbiamo visto non è finito tutto in una bolla di sapone, diversamente da quanto molti si auguravano. Del lavoro svolto dal mio vecchio Ufficio Istruzione sono soddisfatto. Oggi le mie inchieste appartengono al passato, me le sono lasciate alle spalle, ma rimangono un momento irripetibile della mia storia professionale e personale. Forse quelle inchieste possono aver avuto anche una piccola funzione preventiva. Far capire ai giovani che nello Stato c’era qualcuno disposto a muoversi per cancellare certe vergogne del passato. È come se si fosse lanciato un messaggio: non abbiate sfiducia nelle Istituzioni del Paese. Anche nello Stato infatti qualcuno ha continuato a lavorare e ha come riparato le collusioni e le negligenze del passato. Questo può essere un piccolo deterrente da nuove scorciatoie verso la violenza, basate sulla sfiducia integrale nello Stato e che a tratti rischiano di tornare attuali.”

 

 

                                                                                                             Guido Salvini

                                                                                                           Tribunale di Milano

 

 

 

 

 

 

PRESENTAZIONE AUTORE

Guido Salvini si è laureato a Milano nel 1978, ha svolto per alcuni anni l’attività di assistente universitario ed è entrato in magistratura nel 1982.

Si è occupato, prima come Giudice Istruttore e poi come Giudice per le Indagini Preliminari, di inchieste in materia di terrorismo di destra e di sinistra e più recentemente di terrorismo internazionale e a Cremona dell’indagine sul Calcio-scommesse

Affianca da molti anni all’attività professionale un impegno storico e culturale sui temi del giustizia e della “memoria “ e della riflessione sul nostro recente passato che lo vede tenere lezioni e dibattiti in scuole, università, sedi comunali e associazioni culturali e giovanili espressione della società civile

E’ stato consulente della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sulle cause dell’occultamento dei fascicoli relativi alle stragi nazifasciste del 1943.1945, della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul sequestro dell’on. Moro ed è attualmente consulente della Commissione Antimafia.

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