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IL DRAMMA DEI MIGRANTI AL CENTRO DELLA CRISI ABITATIVA IN ITALIA

Immaginate di vivere in un paese straniero. Di sentire che la vostra vita è sospesa e mutilata di anni preziosi a causa delle estenuanti attese della burocrazia. Immaginate di aver ottenuto, dopo magari cinque anni di viaggio e altri cinque di attesa, un documento che vi consente di rimanere lì, interrompendo l’infinita concatenazione di ansie e di piani di emergenza in caso di rifiuto. Avete passato dieci anni con il fiato sospeso senza poter rivedere vostra madre, la vostra famiglia, i vostri amici, perché senza permesso di soggiorno non potevate espatriare. Magari, nel frattempo, avete anche perso i genitori, li avete salutati a 15/16 anni sperando di riabbracciarli presto e non li avete visti mai più. Ma alla fine, l’attesa viene ripagata. Avete il documento.

Immaginate ancora di essere riusciti a trovare un lavoro, magari persino con un contratto a tempo indeterminato. Pensate che finalmente le cose vadano per il verso giusto. Di avercela fatta, avete quello che vi serve per poter ripartire con la vostra vita, dopo aver perso nel frattempo praticamente tutta la vostra giovinezza e sicuramente la sua spensieratezza.

Rimane solo un problema da risolvere adesso: sembra un piccolo dettaglio, un’inezia di qualche settimana. Vi manca una casa. Una ricerca tipica della vita di tutti, normale amministrazione. E invece no. Perché la casa non la trovate. E nonostante abbiate un lavoro, un contratto e uno stipendio, finite a vivere per strada. Diventate senza fissa dimora.

Sembra la trama di un romanzo distopico, ma è la realtà di molte persone immigrate oggi in Italia.

Sì, in Italia avere un lavoro con contratto a tempo indeterminato non è garanzia di non diventare dei senzatetto.

Perché? Perché la terribile crisi abitativa che coinvolge tutto il paese si riversa, inevitabilmente, anche e soprattutto sulle persone immigrate.


Assistiamo costantemente alla narrazione di molti media secondo cui nel nostro paese il problema è la mancanza di lavoro. Questione posta, in realtà, in modo inesatto, perché uno dei maggiori fattori di rallentamento per la crescita del nostro paese è in realtà la carenza di lavoratori. Nel 2022, le pensioni erogate in Italia hanno superato di 205mila unità gli stipendi. Ciò che manca, invece, sempre di più, è la casa. Un problema che ha iniziato a interessare i giornali solo negli ultimi mesi, poiché coinvolge sempre più italiani.

Per chi non può permettersi di comprare – e secondo i dati Istat del 2022 soltanto il 16% degli immigrati in Italia vive in una casa di proprietà – la ricerca di un affitto diventa un calvario senza fine che può portare ad una concatenazione di eventi drammatici, tra i quali la perdita del permesso di soggiorno tanto agognato. Ma quali sono le cause? Vediamo.


Un problema quantitativo?

 

Nel 2022, l’Istat ha calcolato che circa 2,5 milioni di famiglie, in Italia, si trovano in uno stato di emergenza abitativa. Il 31% di queste è rappresentato da persone di origine straniera. Il caro vita, gli affitti sempre più alti portano moltissime persone a spendere più del dovuto per pagare un affitto. Ma il problema non è solo economico. In molte città italiane, tra cui Padova, le case per gli immigrati sembrano non esserci. Ma è realmente così?

In Italia investiamo molto di più nelle ristrutturazioni che nella costruzione di case nuove, circa il 74% del lavoro del settore edilizio contro solo il 25%. Questi dati sono dovuti anche all’oggettiva diminuzione della popolazione italiana. Questo non vuol dire, comunque, che non si costruisca. Negli ultimi vent’anni, il suolo italiano edificato è niente meno che raddoppiato. Parallelamente, è aumentata vertiginosamente anche la quantità di case vuote, con un incremento del 350% in soli 10 anni. Significa che quasi il 25% delle case è vuoto, mentre 2,5 milioni di famiglie italiane faticano a trovare un appartamento in cui poter vivere dignitosamente. Questi dati ovviamente variano in base alla regione e alla zona in cui ci troviamo. Per esempio, nei centri urbani, soprattutto nelle grandi città o nei centri universitari, c’è un sempre maggiore addensamento di popolazione, cosa che alza notevolmente il livello di difficoltà nella ricerca della casa. Un calvario a cui vanno incontro anche molti studenti universitari. Ma rimane il fatto che ci sono 7 milioni di appartamenti vuoti. Il problema non è, dunque, solo quantitativo.

 

No, il problema è anche e soprattutto culturale.

 

Innanzitutto, l’Italia sta importando il pessimo modello americano dei ghetti. A Milano, così a Roma, a Verona, a Firenze e in moltissime altre città, le persone straniere trovano casa, quando e se la trovano, quasi sempre negli stessi quartieri, con un conseguente, fortissimo fenomeno di ghettizzazione. A Padova, per esempio, è il caso dell’Arcella, in origine quartiere operaio nato all’inizio del Novecento e che ora sembra l’unico posto in tutta la città dove una persona immigrata abbia il diritto di vivere. Una particolare concentrazione di diverse culture che suscita la diffidenza e la paura dei cittadini italiani circostanti. Anche perché, oltre al disagio abitativo, spesso subentra anche il disagio economico, con tutte le problematiche che ne conseguono. Le case, poi, spesso sono malmesse, fatiscenti, affittate agli immigrati per non dover investire in una ristrutturazione che probabilmente pretenderebbero gli italiani.  Ma sia fuori che dentro questi quartieri, trovare un alloggio è ormai una missione che pare impossibile, una caccia disperata che si protrae anche per anni.

Mamadou (nome di fantasia per motivi di privacy) viene dal Mali, ha un ottimo lavoro e un percorso di integrazione particolarmente riuscito. Vive a Padova da sei anni, parla perfettamente l’italiano ed è talmente inserito nella società da svolgere settimanalmente anche attività di volontariato. Eppure, le porte che si è visto sbattere in faccia quando è stato costretto a traslocare, sono infinite.

La ricerca è durata più di un anno e si è conclusa poche settimane prima di ritrovarsi ufficialmente senza un tetto sopra la testa, al punto che già tutti gli amici avevano iniziato ad organizzarsi per ospitarlo temporaneamente. La soluzione è arrivata solo grazie all’intervento di amicizie comuni, italiane, che hanno unito le forze fino a che non hanno trovato una conoscente con un appartamento sfitto. Ma fino a quel momento, le risposte di proprietari e delle innumerevoli agenzie immobiliari consultate erano state sempre le stesse:

“Non affitto casa agli stranieri”, “Mi dispiace, i proprietari vogliono solo cittadini italiani”. Oppure, a cinque minuti dalla pubblicazione dell’annuncio online, “mi dispiace, l’appartamento non è disponibile”.

Un rifiuto reiterato che ha pesanti ripercussioni sul percorso di integrazione. In primis perché non tutti hanno la fortuna di avere alle spalle una simile rete di supporto. In secondo luogo, perché alimenta profondamente il senso di emarginazione.

“È brutto, eh. Ti senti rifiutato come persona”, racconta Mamadou. “Ti domandi, ma io che cosa ho fatto di male? Niente, ho il documento, sono educato, ho il lavoro, mi presento anche vestito bene. Ci spero tanto e poi ti dicono, eh, mi dispiace, non è possibile, io non sono razzista, ma…”.

Ma.

Ma, se sei solo, finisci per strada. E in questo periodo dell’anno, vivere per strada significa rischiare la vita ogni notte, dato che ne stiamo attraversando i giorni più freddi dell’anno. Quasi ogni giorno si legge sui giornali di qualche senza fissa dimora morto di freddo durante la notte. Victor, un ragazzo nigeriano di 30 anni che ora vive a Foggia, racconta che quando viveva a Bologna, senza casa, durante le notti d’inverno aveva paura di addormentarsi e non svegliarsi più. “La mia più grande paura era morire di freddo per strada senza che nessuno se ne accorgesse. Magari vedevano il corpo, ma non la mia persona. A causa della vita in strada ho perso i documenti e non ho famiglia. Sarei morto senza che nessuno dicesse almeno una preghiera per me.”

Se ci si ritrova senza casa, si rischia di finire un loop burocratico che può terminare con l’espulsione. Lo racconta John, anche lui di origine nigeriana. Arrivato in Italia nel 2015, ha presto trovato un lavoro che dopo qualche tempo gli ha permesso di avere un contratto a tempo indeterminato. Ma quando il proprietario della casa dove viveva ha deciso di vendere sono iniziati i problemi.

“Adesso vivo per strada” racconta. “Non sono riuscito a trovare nessuno disposto ad affittarmi un appartamento, anche se ho l’indeterminato. Nessuno. Tutti dicono sempre gli italiani, solo agli italiani. L’Italia poteva avere un nigeriano per bene che lavorava e pagava le tasse, ora ha un senzatetto in più, cosa ci ha guadagnato?”. Vivendo per strada, ha perso anche la residenza, uno dei beni più preziosi per le persone straniere in Italia, visto che senza di essa non è possibile rinnovare il permesso di soggiorno. “Non so come fare”. John è disperato e profondamente frustrato, continua senza successo la sua ricerca, ma con il permesso di soggiorno scaduto è diventato praticamente impossibile. “Ora rischio di perdere anche il lavoro”, lamenta, “vivo per strada, dormo male e quindi lavoro male. Il mio capo non è contento. Sto perdendo tutto, piano piano.” E da questa concatenazione di perdite difficilmente si riesce ad uscire.

Per far fronte a questo problema, molte persone di origine straniera sono costrette ad accettare situazioni abitative irregolari. Catene di subaffitti che culminano con stanze singole abitate anche da cinque o sei persone contemporaneamente e pagate fino a 250 euro a posto letto. Situazioni sintomo di un disagio profondo, condizioni assurde a cui però ci si piega pur di non rischiare di perdere tutto quello per cui si è lavorato.

Un sistema di emarginazione che si autoalimenta, aggravando la vertiginosa distanza sociale. Il rifiuto dello straniero genera l’indigenza e la rabbia dello straniero che porta all’ulteriore rifiuto e diffidenza nei confronti straniero stesso.

PRESENTAZIONE AUTRICE

Arianna Baldi
Letterata di formazione, nella vita privata e lavorativa si occupa di migranti, comunicazione e giornalismo. Dal 2022 collabora con Nigrizia come social media manager e redattrice, con l’opportunità di formarsi anche come giornalista.
Dal 2017 è parte attiva della Comunità di Sant’Egidio, presso la quale svolge un servizio dedicato all’integrazione di rifugiati e richiedenti asilo.

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