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(da un incipit di Joe R. Lansdale)

La mattina dopo, quando Giuseppe uscì di casa per gettare la spazzatura, scoprì con sua somma sorpresa che la testa decapitata di sua moglie si era ripresentata accanto al bidone. Giuseppe alzò gli occhi e vide che, dal lato opposto della strada, il cane di sua moglie, Mitzy, un grosso pastore tedesco femmina, lo stava scrutando. Era quella cagna ad averla dissotterrata e averla riportata lì, solo che stavolta lui avrebbe fatto piazza pulita completa della testa, come pure del cane, perché la preziosa lezione che aveva imparato era che, se intendi ammazzare qualcuno, devi farlo bene o, quantomeno, meglio di come aveva fatto lui fino a quel momento e un buon modo per sbarazzarsi di quella testa sarebbe stato scioglierla nell’acido. Quanto al cane, sarebbe bastata una bella bistecca avvelenata.

Giuseppe buttò la spazzatura nel bidone, poi guardò attorno nella bruma del mattino. Non c’era anima viva, a parte la cagna. Si piegò, e raccolse la testa per i capelli. La cagna prese a uggiolare e lui la provocò facendo dondolare la testa. Pesava parecchio, ma quei capelli reggevano dannatamente bene. Nessuno avrebbe fatto particolarmente caso ad una testa penzolante, quel primo di novembre. Una maschera di Halloween già finita nella spazzatura, avrebbero pensato.

L’uomo osservò bene quello che aveva in mano. In effetti quella testa non assomigliava granché alla donna che aveva sposato. Eppure non si poteva certo dire che fosse stata la morte ad averla cambiata rispetto alla sera precedente. Erano piuttosto tutte quelle plastiche facciali degli ultimi anni ad averla stravolta rispetto al giorno nel quale s’erano conosciuti. Quand’era stato? Quasi trenta anni prima, ricordò, una fresca sera d’inizio estate e fine università. C’era una di quelle serate danzanti che riproponevano Swing Anni Quaranta, e Giuseppe adorava presentarsi tirato a lucido, bretelle nere e camicia bianca, coi baffetti impomatati e un cappello leggero ereditato dal padre, rimasto ucciso sul fronte francese. Aveva notato subito le gambe agili di quella che sarebbe diventata sua moglie. Erin le muoveva con sicurezza per la pista da ballo, senza mancare di far dondolare il sedere, esaltato dalla stretta cintura che stringeva l’abitino di stoffa fiorata. Erano tempi buoni quelli, in cui non c’era troppo da fare calcoli. Si sposarono prima della fine dell’anno e comprarono tutto a credito. Le cose andavano bene nei primi anni, non fosse stato per le telefonate domenicali della madre di Giuseppe. Iniziavano tutte con la stessa domanda:

“Quando diventerò nonna?”

Lui rispondeva sempre:

“Mamma, lo sei già. Sia Francesca che Michael hanno due figli.”

“Ma io lo voglio da te!”

“Arriverà, mamma, arriverà…”

Erin sentiva la voce lamentosa della suocera e, pur non capendo bene l’italiano, sapeva perfettamente di cosa stessero parlando. Giuseppe doveva passare l’intera domenica a far smaltire il malumore alla moglie. A lui non importava granché di avere un figlio, ma era comunque felice di provare ad accontentare la madre ogni sera.

Giuseppe si scosse, guardò ancora la testa, alzò le spalle e rientrò in casa stando attento a non bagnarsi le ciabatte sul sentierino bagnato. La cagna ringhiava sommessamente alle sue spalle.

Una volta dentro, l’uomo scese nello scantinato e infilò la testa della moglie in uno scatolone di cartone. Era così fredda che non gocciolava nemmeno un po’. Si fermò a fissare il taglio, e sentì nella mano, ancora una volta, vibrare la sega sull’osso del collo. Era stata dura farlo cedere.

Ebbe un brivido, e ripensò alla lite della sera precedente. Erano volate parole grosse, tutte stupide, tutte evitabili. Erano sempre state così le loro liti, da un certo punto in avanti. Più o meno da quando era diventato chiaro che loro non ce l’avrebbero mai avuto, un bambino. Erano tutte diventate liti senza un domani, violentissime, dove entrambi non si risparmiavano nessun colpo. Ogni accordo era escluso. Si dicevano qualunque cattiveria, con il preciso intento di ferire l’avversario. Cercavano la vittoria totale, non bastava affermare la propria ragione.

Poi la tempesta, improvvisa così com’era arrivata, se ne andava. Tutti e due si rendevano conto di essere andati davvero vicini a perdersi per sempre, e di colpo le ostilità cessavano. Qualche ora di silenzio, prima di fare pace in un modo altrettanto totale e fisico.

Andarono avanti così ancora qualche anno, a vedere i vicini fare figli e crescerli.

“Un uomo come lui, con una che non può avere figli” – si diceva all’uscita della Messa.

Fino a che non venne fuori che la madre di Giuseppe avrebbe lasciato la Costa Est – troppo umida – per trasferirsi da loro in bassa California. “Non so se ce la faccio, Giuseppe” – disse lei.

Lui si era limitato ad abbassare lo sguardo e a passarsi una mano sulla fronte.

Quando la donna arrivò, le cose cambiarono davvero. Ora erano due contro uno. Erin era sempre all’angolo, in difesa, attentissima a non commettere alcun errore. Eppure, non aveva alcuna possibilità di tornare nelle grazie della suocera. Agli occhi della vecchia era lei quella difettosa, quella che non aveva potuto darle un quinto nipote, quella che le rendeva insopportabili le voci all’uscita dalla Chiesa.

Doreen, la vecchia, trasformò la vita della giovane sposa in un calvario. Sempre la stessa domanda, ogni giorno la solita ossessione. Il ripetersi, inesauribile, di tristi rituali.

Giuseppe l’aveva sempre saputo che permettere alla madre di venire in California avrebbe incasinato tutto, ma non immaginava che l’avrebbe fatto fino al punto di fargli infilare la testa della moglie in una scatola. Eppure era andata proprio così. Era andata che lui aveva cominciato ad invecchiare: un po’ di pancetta e qualche capello argentato all’inizio, niente di che. Invece lei no, lei si era rifiutata di lasciare che il tempo la trasformasse nella suocera. Non per vanità, no. Era la vecchiaia, a terrorizzarla: la testa che non sa che ripetere lo stesso pensiero. Le situazioni che si incancreniscono. Prima fu una liposuzione. Poi un ritocchino. Poi, sempre di più, mentre lui avvizziva e lei no. La chirurgia plastica dava buoni risultati.

“Come fa una donna così a stare con quel vecchio” – mormoravano all’uscita della Chiesa.

La suocera non aveva cessato di criticarla, fino a che un ictus le tolse la parola.

Erin decise di rinunciare a tutto pur di godersi in prima fila lo spettacolo di quella sofferenza, e non se lo perse. Il cervello della donna aveva ancora tante cattiverie da dire, ma il corpo e la voce non l’assecondavano più. Nei suoi occhi c’era tutto il tormento di quella prigione. E davanti a quegli occhi c’era Erin, sempre giovane. 

La vecchia se ne andò dopo anni d’inferno.

Era successo poche ore prima, anche se sembrava una vita. Da giorni il medico aveva tolto loro ogni speranza, e Giuseppe stava tenendo la mano della madre, quando la moglie era entrata. Era passata dietro la schiena del marito, senza degnarlo di un gesto di conforto. S’era chinata sulla vecchia, piegandosi ad angolo retto, e le aveva sussurrato. “La vuoi sapere una cosa, Doreen?”

Il marito era restato immobile, mentre lei aveva tirato fuori una foto, o qualcosa del genere. Gli occhi della vecchia sembravano seguirla. Erin alzò il braccio, rivelando contro la luce una radiografia che sembrava piuttosto vecchia.

“Era tuo figlio a non potere avere figli, non io. Ma siccome tu ne eri così convinta, ho preferito non darti una delusione. Questo – sventolò il foglio – sarebbe stato tuo nipote.”

La vecchia ebbe uno spasmo, emise un suono acuto, soffiò fuori un filo d’aria e morì.

Come successe che Giuseppe riuscì ad alzarsi, afferrando prima che potesse scappargli quella moglie così giovane e così vecchia, non avrebbe saputo dire. Ma era successo, ed era cominciato tutto con una telefonata domenicale.

Giuseppe andò a cercare in fondo allo scantinato il grosso sacco del carbone, e con quello riempì tutti gli spazi vuoti nella scatola con la testa. Poi tornò di sopra con lo scatolone, ci infilò dentro anche la radiografia e chiuse tutto con del nastro adesivo. L’avrebbe semplicemente sciolta. Tutta quella plastica si sarebbe squagliata senza alcun bisogno di acido, che nemmeno sapeva dove andare a pescare.

Pensò anche di risparmiare sulla bistecca avvelenata, tanto più che non avrebbe saputo come avvelenarla, una bistecca. Se ne morisse per strada, quella cagna maledetta, che certo non avrebbe mai potuto dire nulla a nessuno. E se gli fosse riuscito d’acchiapparla ci avrebbe fatto su qualche bel dollaro, che quella lì aveva il pedigree e tutto.

Sì, gli avrebbe fatto comodo qualche soldo, per fare alla madre un bel funerale.

E pensare che a lui non importava granché di avere un figlio.

AUTORE

Alessandro Marchi

Nato a Bologna, vivo a Bruxelles.

Dal 1999, prima ancora della Laurea in Storia Contemporanea, ho iniziato a lavorare nella carta stampata. Da lì mi sono impantanato nel mondo della comunicazione, dal quale non sono ancora uscito.

Ho vissuto in Spagna e a Roma, il che voglio credere abbia arricchito di suggestioni le atmosfere delle mie storie. Grazie a loro mi sono ritrovato a bere Borghetti su un divano cacciato in strada con gli ultras del Foggia o davanti ai ruderi della casa dei miei nonni lungo la Linea Gotica.

Contrario alle scorciatoie fino all’autolesionismo, cocciuto, poco diplomatico, ciclista urbano, fondatore di Bologna30, continuo a pensarmi giovane a dispetto della carta d’identità.

Non ho idea di come si faccia una breve biografia brillante.

Scrivere però mi fa stare bene, e questo basta e avanza.

www.alessandromarchi.eu

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