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ENJERA A COLAZIONE, PRANZO E CENA

Due mesi in Etiopia possono essere un antipasto sufficiente per assaggiare un mondo alieno da cui fuggire o diventare una fonte d’ispirazione che genera un’attrazione fatale. Per alcuni è la prima, per altri la seconda.

Il mio caso si colloca nella seconda categoria. Ma contestualizziamo un attimo. Sono un europeo bianco agnostico, il che è già diverso dall’essere un’europea bianca atea per non parlare poi di chi è religioso, che si è recato in questo paese per la prima volta e che sostanzialmente – a parte qualche indicazione sull’alloggio e sulla persona con cui lavorare, che comunque sono state informazioni più che fondamentali – vi si è lanciato con pochi strumenti e ancor meno indicazioni. Il turbinio di eventi che si è generato dalla decisione di partire per questa missione di ricerca – conseguente al mio Ph.D. o dottorato – è stata una delle esperienze più belle, e di successo – ho scoperto archivi mai esplorati da nessun ricercatore – che abbia mai fatto.

Quindi vorrei condividere con voi alcune impressioni che ho tratto dal viaggio, nella forma di diario di bordo, senza la presunzione di svolgere un’analisi esaustiva né di esprimere un punto di vista incontrovertibile. Perché? Perché, a mio avviso, fare esperienza di un’altra società, un altro modo di vivere, un altro habitus – quella serie di norme sociali che ogni individuo ha dovuto imparare sin dalla giovane età per sopravvivere in una determinata società, ovvero il gioco sociale incorporato fattosi seconda natura degli individui e che, se preso nella sua dimensione collettiva, è la struttura strutturante della società stessa – è condizione imprescindibile per abbattere le frontiere.

Farne esperienza, facendo sia osservazione partecipante che partecipazione in sé per sé, significa cercare di abbandonare le proprie frontiere culturali, nazionali e identitarie e immergersi in un lago, quello nazionale, in un mare, quello regionale, e in un oceano, quello continentale che è da tutt’altra parte rispetto al nostro cortile di casa. Difatti vivere in Italia, che fa parte del Sud Europa e poi del continente europeo significa vivere secondo un habitus specifico, secondo norme sociali particolari, ma non per questo assolute: vivere secondo un altro habitus, quello etiope, nella regione del Corno d’Africa che è parte del continente africano, significa saper relativizzare entrambe le realtà. Relativizzare significa cercare di mettere da parte quell’assunzione ‘naturale’ – non è propriamente naturale bensì culturale ma con la crescita, e l’abitudine, e la reiterazione dei gesti diventa una seconda natura – per cui la nostra realtà sia la realtà ‘assoluta’, nel senso che da questa seconda natura discenda la considerazione che questa sia la ‘normalità’ e invece è solo una delle varie declinazioni culturali del mondo, e perciò aprirsi a nuovi modi di pensare e vivere la società.

Queste considerazioni sono di partenza, il che non significa che io mi sia completamente integrato né che abbia abbattuto completamente tutte le barriere – è un processo in divenire – ma, spero, che questo posizionamento e le impressioni che ne sono derivate possano aprire un piccolo squarcio sulla mia in primis – ma anche – nostra realtà quotidiana.

 

25 gennaio, Addis Abeba.

La prima idea che mi è venuta, e vorrei avere ancora un/una nonno/a in vita per parlarne, è che l’Etiopia sia come l’Italia negli anni ’50: un paese in pieno sviluppo avviato verso cambiamenti epocali. Per inciso, vi ricordo che il miracolo economico italiano, che permetterà al Belpaese di sedere al tavolo del G8 ovvero delle otto nazioni più industrializzate e potenti del pianeta, avverrà proprio sin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale:

In Etiopia si vedono grattacieli, costruiti e in costruzione, che in Italia non si vedono, si vedono baraccopoli che forse appunto c’erano quando la grande migrazione dal Sud al Nord era agli inizi e si vedono quei grandi complessi di appartamenti che sono tipici degli anni ’70 italiani e in cui tanti di noi vivono ancora. Questa serie di differenze infrastrutturali è, ovviamente, indice dei mutamenti intestini della società: il numero di milionari è in aumento, la classe media – collegata principalmente alle istituzioni governative, ma anche a quella imprenditoriale – sta nascendo, il numero di poveri è diminuito; tuttavia, il netto incremento della popolazione ribilancia questa statistica. Ad ogni modo, l’Etiopia ha sì scalato alcune posizioni nello Human Development Index, così come per PIL, ma ancora l’agognata transizione verso un “paese a medio reddito” fissata per il 2025 va posposta.

 

28 gennaio, Addis Abeba.

In Etiopia vi sono diverse correnti politiche che si fanno battaglia fra loro, ma è la religione l’elemento che fa da collante principale della società. Possiamo scorgere dei primi segnali di secolarizzazione, soprattutto, com’è ovvio, nella fascia di popolazione più ricca e più in contatto con altre culture, ma, come nell’Italia del conflitto bipolare, è l’istituzione ecclesiastica che accomuna la popolazione. Poca differenza fa che la religione sia quella cristiana ortodossa – la Chiesa etiopica è antica tanto quanto la nostra anche se non sono di certo cristiani cattolici – o l’Islam o ancora i cristiani protestanti (ma pentecostali), in Etiopia la convivenza, o meglio ancora la tolleranza, fra religioni è la norma.

Se l’Italia del dopoguerra aveva il ‘miglior partner possibile’ del tempo, gli Stati Uniti, l’Etiopia ha – mutatis mutandis – lo stesso, la Cina. La Cina è in Etiopia non per la ricerca delle risorse o il land grabbing ma, principalmente, perché l’Etiopia è il centro diplomatico dell’Africa, e perché il partito-stato al governo (come quello attuale) ha uno sviluppo e un’idea di sviluppo che s’ispirano a quelli cinesi. Inoltre, è uno dei punti chiave della Nuova Via della Seta. La Cina costruisce strade, grattacieli, fa impresa e insomma è il grande sponsor del paese e non bada a spese.

30 gennaio, Addis Abeba.

Le similitudini con il nostro paese non sono solamente economico-politiche né religiose, sono proprio radicate nel tessuto sociale. In Italia siamo famosi per le discussioni infinite, per il voler aver ragione, per non voler mai fare un passo indietro su una questione che ci sta a cuore, in Etiopia si fa prima: non sentirete mai dire “non lo so”, anche se qualcuno non sa qualcosa troverà comunque una risposta da darvi, per quanto vaga e imprecisa possa essere. Il nostro “boh” non è concepito e sicuramente in questo vi è una grande differenza ma il concetto è molto simile. Così come con i nostri segreti di Pulcinella, quelli che non si dicono ma che sanno tutti e che sono collegati all’omertà, in Etiopia è lo stesso anche se si dice addebabay mister. Per capire chi ha ragione beh, come da noi, rimboccatevi le maniche!

In Etiopia, come succede a volte al Sud Italia ma come succedeva in tutto il Belpaese nel passato, si vive per strada la maggior parte del giorno: si mettono le sedie davanti alle case o agli uffici, i lustrascarpe lavorano alacremente e ti chiamano per darti una pulitina, basta mettere un fornello, due sedie e già si è fatto un caffè e/o una bettola; ognuno ha tanti parenti, amici e se hai un problema basta chiedere a qualcuno e vedrai che l’amico dell’amico parente alla lontana ti troverà la soluzione. “Viene mio cugino”, come si suol dire. Ma il giorno è anche il momento, sin da quando spunta il sole alle sei e mezza, in cui l’attività freme in ogni angolo per le strade – per non parlare del traffico infinito – tutti sono fuori e dai lustrascarpe sempre dietro l’angolo, ai caffè con i panchetti per strada dove sedersi per una lenta ma veloce pausa, ai businessman in cravatta che affollano un po’ tutti i quartieri, ai mendicanti di tutte le età, ai cani e gatti randagi ad ogni angolo, ai minibus – furgoni che, assieme ai classici bus, forniscono il servizio pubblico di spostamento – i cui postiglioni urlano ad ogni angolo verso quale quartiere sono diretti, ai poliziotti dislocati un po’ ovunque, ai tanti impiegati e studenti ognuno si affaccenda, s’industria, s’affanna per una piccola fetta di qualcosa. Vi è anche una gran dose di nullafacenti, quasi solo uomini, che mangiano la locale foglia di coca, il chat, o che stanno semplicemente a bersi le birre da mattina a sera e che si mischiano con l’altra grande fetta della popolazione che occupa le strade osservando, i poliziotti e i militari.

 

2 febbraio, Addis Ababa.

Addis Abeba che poi, in Amarico, significa ‘Fiore Nuovo’. Qualcuno dei lettori dirà, ma certo li abbiamo colonizzati noi! L’Italia ha fatto quel paese! Niente di più sbagliato. In Etiopia non si parla di colonizzazione ma di occupazione e se la differenza semantica vi sembra poca: l’Italia ha conquistato l’Etiopia e vi è rimasta per cinque anni, tanto da ottenere il controllo delle principali città e di qualche progetto di sviluppo nelle aree rurali ma sostanzialmente l’intero paese, dato che la maggioranza della popolazione è rurale, non era sotto nessun controllo. L’Italia non ha scalfito la struttura sociale, ha contribuito a quella infrastrutturale (ma gli inglesi dopo averci scacciato hanno requisito circa l’80% di ciò che avevamo lasciato) e ha compiuto numerosi massacri ingiustificati che, nella nostra Storia, sono stati messi sotto al tappeto. Perché in Italia un esame critico della memoria collettiva del paese, rispetto a colonialismo e fascismo, non è mai stato fatto. Nonostante i tentativi operati da accademici del calibro di De Felice o intellettuali come Scurati per quanto riguarda il fascismo, o al dibattito fra Montanelli e Del Boca riguardo al colonialismo, queste riflessioni sono rimaste esercizi intellettuali mentre la società faceva il suo corso.

Ma quindi qual è la concezione etiopica degli italiani? Come siamo visti nel paese in cui la cooperazione allo sviluppo italiana investe più di tutti? In realtà, nonostante tutto, quando si parla degli italiani se ne parla in maniera positiva soprattutto per le numerose costruzioni, edifici e dighe in primis, che dal secondo dopoguerra le aziende italiane hanno fatto nel paese. Tutto qui? No, gli italiani vengono anche presi in giro per la grande batosta che gli etiopici ci hanno dato ad Adua. La più grande battaglia coloniale mai combattuta e che ha ispirato generazioni di africani oltre a dimostrare che l’imbattibilità dei bianchi, costruita ad hoc durante il XIX secolo, era solo un mito.

 

4 febbraio, Addis Abeba.

 E dunque qual è il maggior lascito italiano in Etiopia? Ci sono una manciata di parole che in amarico, la principale lingua del paese, sono semplicemente italiane: si dice ciao, anche se solo come arrivederci, la strada asfaltata si dice asfalto, borsa o anche sciarpa sono uguali – anche se sciarpa si pronuncia sciarpà – e ovviamente i due prodotti italiani che hanno valicato ogni confine, che sono stati riadattati in ogni maniera possibile e che, se mai saremo invasi da specie veramente aliene, potremo usare come strumento di mediazione: la pasta e la pizza.

La pizza è davvero buona e simile alla nostra, anche se la si può mangiare con delle salse a parte, mentre la pasta si mangia con l’enjera. L’enjera, nella dieta etiopica che è variegata tanto quanto la nostra, è onnipresente: si tratta di una sorta di piadina fatta con il teff, un cerale tipico dell’altipiano etiopico, e che serve come le nostre posate, difatti si mangia con le mani. E, come si evince dal titolo, ho finito per mangiare enjera a colazione, pranzo e cena… In Etiopia, dovete sapere, la cultura dei dolci è praticamente assente – a parte per qualche bombolone e le torte di compleanno – e si mangia quindi quasi sempre salato. Ma se la cucina etiope è caratterizzata da stufati e spezzatini di capra, manzo e pollo – il maiale, come il cavallo, non si mangia – si può anche considerare il paradiso di vegetariani e, volendo, vegani! Difatti il mercoledì e il venerdì, i cristiani ortodossi, sono obbligati a mangiare il ‘fasting food’ ovverosia solamente verdure: per la Quaresima poi sono addirittura 40 i giorni in cui la carne e i suoi derivati sono banditi. L’Etiopia è però anche un paese in cui le differenze religiose la fanno da padrone, difatti basta fare un giro per la capitale e si trova un ristorante/bettola/trattoria dove si può gustare dell’enjera con la carne anche durante la Quaresima, perché sì, i cristiani sono la maggioranza ma le loro tradizioni religiose non impediscono agli islamici, e ai protestanti, di mettere in atto pratiche diverse.

Testo e fotografie di Andrea Cellai

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