
ECO-DISCRIMINATED
Il silenzioso genocidio dei Pigmei africani
“Un giorno abbiamo visto arrivare della gente armata che ci ha detto di uscire dalla foresta. Eravamo terrorizzati e così ci siamo messi a correre senza sapere dove andare, e alcuni di noi sono scomparsi. Potrebbero essere morti o fuggiti da qualche parte che non conosciamo. Dopo lo sfratto, abbiamo tutti paura”.
Un genocidio silenzioso si sta consumando, ormai da decenni, nel cuore dell’Africa. Una morte lenta, che sta portando all’estinzione di uno dei più antichi popoli del Continente, quello dei Pigmei. La loro comparsa documentata risale al terzo millennio a.C. in un papiro egizio durante la dinastia del faraone Neferkare. Divisi tra le regioni forestali del Ruanda, Burundi, Camerun, Uganda, Repubblica Democratica del Congo, Guinea equatoriale, sono raggruppati in piccole comunità composte da pochi nuclei familiari e si stima che il loro numero totale sia inferiore a 250 000 individui. Da sempre e per tradizione i Pigmei sono cacciatori e raccoglitori e l’essenza della loro identità è tutta racchiusa nell’espressione “popolo della foresta”, che mette in luce l’importanza da essa rappresentata nella loro cultura, nella loro storia e nel loro sostentamento. Un connubio armonico e un equilibrio perfetto fra le risorse naturali ed il loro fabbisogno giornaliero, senza accumuli né sprechi. Una dimora fisica e spirituale, con la quale hanno creato un legame intimo, che proteggono e venerano da generazioni e alla quale offrono danze e canti con grande devozione. Sempre attenti a ciò che li circonda, vivono in piccole abitazioni, fatte di rami e ricoperte di foglie impermeabili, che resistono alle piogge cui sono sottoposte quasi quotidianamente.
Al loro interno l’arredamento, poggiato sulla nuda terra, è limitato ad un letto di canne, a qualche stuoia, a pochissime suppellettili e a qualche vecchia pentola. Il fumo della brace, che rimane sempre accesa, ricopre di uno strato nero il tetto di foglie e lo rende impermeabile.
Non esiste la corrente elettrica.
I Pigmei utilizzano solo materiale naturale, come pelle, ossa, corna e fibre vegetali. La loro economia è basata sulla caccia, praticata dagli uomini con reti e archi e sulla raccolta fatta dalle donne. Mentre gli uomini si dedicano alla caccia e ad allestire trappole, le donne si prendono cura dei bambini e si recano nella foresta, con la gerla sulle spalle, per raccogliere tutto ciò che è commestibile. Esse conoscono perfettamente tutte le proprietà delle piante e come queste possono essere utilizzate. La selvaggina viene barattata nei villaggi con altri beni. I Pigmei si avvicinano alle radure, depositano la cacciagione a terra e si nascondono tra gli alberi, aspettando che gli abitanti dei villaggi vengano a prenderla, lasciando in cambio banane, farina, punte per le frecce e lame per le lance.
Nel corso dei secoli, descrizioni contrastanti e spesso fantasiose furono riportate nelle opere mitologiche, letterarie e scientifiche che li equipararono, per la loro bassa statura, alle scimmie e ad esseri deformi, creando una discriminazione etnica e un’accezione negativa dello stesso termine pigmeo. Furono perseguitati come animali selvaggi anche dal popolo Bantu, che li considerava creature inferiori. Agli inizi del Novecento, vestiti con pelli di antilope, vennero addirittura esposti alla cinica curiosità del pubblico americano come se fossero animali da circo o fenomeni da baraccone.
Un triste ed eclatante esempio è la storia di Ota Benga, un pigmeo originario del
Congo appartenente alla tribù Mbuti, sposato con una donna dei pigmei Batwa, che il 20 marzo 1916, all’età di 32 anni si sparò al cuore perché costretto, contro la sua volontà, a rimanere negli Stati Uniti, esposto in mostra per anni allo zoo del Bronx di New York.
Una storia crudele e quasi sconosciuta, quella di Ota Benga, ma simile a quella di tanti pigmei che hanno vissuto il suo triste destino. Antropologhi e studiosi di genetica hanno sempre cercato di capire il perché i pigmei fossero così “piccoli”. La maggior parte di loro era addirittura convinta che non avessero l’ormone della crescita, cosa che si è rivelata, poi, del tutto infondata.
Nel corso dei secoli, descrizioni contrastanti e spesso fantasiose furono riportate nelle opere mitologiche, letterarie e scientifiche che li equipararono, per la loro bassa statura, alle scimmie e ad esseri deformi, creando una discriminazione etnica e un’accezione negativa dello stesso termine pigmeo. Furono perseguitati come animali selvaggi anche dal popolo Bantu, che li considerava creature inferiori. Agli inizi del Novecento, vestiti con pelli di antilope, vennero addirittura esposti alla cinica curiosità del pubblico americano come se fossero animali da circo o fenomeni da baraccone. Un triste ed eclatante esempio è la storia di Ota Benga, un pigmeo originario del Congo appartenente alla tribù Mbuti, sposato con una donna dei pigmei Batwa, che il 20 marzo 1916, all’età di 32 anni si sparò al cuore perché costretto, contro la sua volontà, a rimanere negli Stati Uniti, esposto in mostra per anni allo zoo del Bronx di New York.
Una storia crudele e quasi sconosciuta, quella di Ota Benga, ma simile a quella di tanti pigmei che hanno vissuto il suo triste destino. Antropologhi e studiosi di genetica hanno sempre cercato di capire il perché i pigmei fossero così “piccoli”.
La maggior parte di loro era addirittura convinta che non avessero l’ormone della crescita, cosa che si è rivelata, poi, del tutto infondata. Con la creazione del primo Parco Nazionale, quello dei Virunga, nel 1925, è iniziato il processo di allontanamento dei Pigmei dalla loro terra.
Kauzi[1]Biega, Mgahinga, Bwindi, molte foreste sono state inserite nei progetti per lo sviluppo del Turismo sostenibile che, in Paesi come il Ruanda, ha creato un indotto da oltre 400 milioni di dollari l’anno.
Le eco-guardie hanno cacciato le tribù dal loro ambiente. I villaggi sono stati distrutti e i pigmei torturati, abusati e umiliati. Spesso, molti di loro, sono stati denudati e costretti a camminare a quattro zampe all’interno di quella che era la loro casa.
Allontanati dalla propria terra in nome dell’ecologia, sono diventati rifugiati in territori ostili ed estranei. Vivono in baracche fatte di lamiere, legno e fango e sono esclusi, quasi totalmente, dalle cure sanitarie e dall’istruzione e non hanno rappresentanti politici in grado di tutelarne i diritti. Una condizione di totale degrado e abbandono che provoca la diffusione di malattie come il tifo, il colera e la dissenteria, con un tasso altissimo di mortalità soprattutto tra i bambini.
Solo una piccola percentuale ha ricevuto un indennizzo, da parte del Governo, per la perdita di quei mezzi di sostentamento che gli garantivano l’autosufficienza all’interno della foresta. La maggior parte di loro non riesce ad adattarsi a questa nuova vita e si sta sedentarizzando, cadendo vittima della depressione, che li fa rifugiare nell’alcool e spesso li spinge al suicidio.
Alcuni gruppi, tra cui i Batwa, si guadagnano attualmente da vivere esibendosi in tristi pantomime per i turisti, raccontando le loro leggende e le loro tradizioni. Altri producono suppellettili di argilla; altri ancora vivono facendo i braccianti senza terra e i servitori a basso prezzo; molti passano le giornate mendicando, con il rimpianto per quella vita che avevano e non potranno mai più riavere.
A tutto questo stato di estremo degrado si aggiunge oggi anche la drammatica situazione causata da quel nemico invisibile che sta mettendo in ginocchio l’intero Pianeta, il COVID19. Questo popolo, isolato in luoghi remoti e abbandonato, rischia di scomparire per sempre e con esso tutto ciò che rappresenta … un tassello della storia dell’umanità.
Mgahinga – Contea di Bufumbira, Distretto di Kisoro Uganda. Un pigmeo Batwa tende il suo arco verso una preda. In realtà questo gesto oggi si è ridotto ad una triste pantomima per turisti, che toglie dignità all’identità di un popolo. Mentre mostrano quello che erano un tempo, nei loro occhi si legge il rimpianto per quella vita che avevano e non potranno mai più riavere. I Batwa sono uno dei più antichi popoli della foresta nella regione dei grandi laghi dell’Africa centrale. Una minoranza invisibile agli occhi di tutti, scampata al genocidio ruandese del 1994 e che viene oggi emarginata
e considerata al pari degli animali.
Mgahinga – Distretto di Kisoro, Uganda. Due uomini camminano a distanza tra le baracche di un villaggio degradato. Non si parlano e hanno lo sguardo assente. Come la maggior parte dei Pigmei cacciati dalle foreste non riescono ad adattarsi alla vita fuori dalla terra dove sono nati e si stanno sedentarizzando, cadendo vittima della depressione, che li fa rifugiare nell’alcool e spesso li spinge al suicidio.
Mgahinga – Distretto di Kisoro Uganda. Una ragazza sistema i capelli a un’altra ragazza del villaggio. I bambini aspettano che loro finiscano. Non hanno altro da fare. Non c’è una scuola, non ci sono alternative. I pigmei vivono in disparte, sono vittime di razzismo e considerati subumani a causa della loro statura.
Kampala, Uganda. Alcuni bambini percorrono un piccolo sentiero in mezzo all’erba per raggiungere una baracca costruita sul pendio della montagna. La più grande trasporta sulla testa un bidone con l’acqua presa al pozzo più vicino. In quella baracca ci sono altri bambini che aspettano seduti. E’ un villaggio Batwa dove non esistono servizi per adulti e per i bambini.
Contea di Bufumbira – Distretto di Kisoro, Uganda. Una donna danza facendo sventolare al vento una stoffa colorata come se fossero un paio di ali.
Alle sue spalle la catena vulcanica. Attraverso i rituali, i canti e le danze, i Batwa mantengono il contatto con le entità soprannaturali che popolano
la foresta.
Kampala, Uganda. Una madre con il suo bambino. Accanto a loro, in una vecchia pentola, un misero pasto, l’unico della giornata. Abituati a una
dieta da cacciatori e raccoglitori, i Pigmei soffrono il cambiamento dello stile di vita e si ammalano spesso. Il fumo della brace, che rimane sempre
accesa, ricopre di uno strato nero il tetto di foglie e lo rende impermeabile
Mgahinga – Distretto di Kisoro, Uganda. Una donna Batwa guarda verso la luce che viene da fuori. Sono stati collocati in alcune baracche ai margini della foresta e sono stati dimenticati e abbandonati a sé stessi. Isolati e discriminati, sono tuttora vittime di intimidazioni e violenze, costretti ad adattarsi ad un moderno stile di vita a loro totalmente estraneo.