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DEMOCRAZIA, ORGANIZZAZION E MERCATO DEL LAVORO. PER UNA RILETTURA DELLA FLESSIBILITÀ

  1. Introduzione

 

Il seguente lavoro è un tentativo di sintesi dei processi di trasformazione che hanno caratterizzato l’organizzazione e il mercato del lavoro nel sistema capitalistico. Consapevoli della complessità del nostro obiettivo, ridurremo il nostro interesse ai modelli d’impresa che emersero tra gli anni Sessanta e Novanta, periodo in cui si realizza il passaggio dall’impostazione taylorista del lavoro a quella tipica dell’impresa flessibile. Considerare questo arco temporale ci permetterà di confrontarci con il tema della flessibilità. A tal proposito, la nostra analisi segue due direzioni.

La prima è, per l’appunto, un’analisi critica dei processi di cambiamento che si articolano nel mondo del lavoro fino agli anni Novanta. Cercheremo di descrivere le cause che producono un’evoluzione del mercato del lavoro, nel tentativo di contestualizzarle in un apparato teorico capace di sottolineare la funzione di tali cambiamenti.

Nella seconda parte del nostro lavoro presenteremo l’idea di “imprese dirette autonomamente dai lavoratori”, proposta da Richard Wolff in Democracy at Work: A Cure for Capitalism (2012).

A conclusione dell’analisi del pensiero dell’economista marxiano, cercheremo di fare dialogare Richard Wolff con Erik Olin Wright. Confrontando l’idea di logica interstiziale con quella di “imprese dirette autonomamente dai lavoratori” tenteremo di sottolineare come la flessibilità possa rappresentare uno strumento di emancipazione, ma solo se inscritta all’interno di una sovra-struttura che non è più riflesso della struttura capitalistica.

  1. Dal taylorismo all’impresa flessibile

Ragionare intorno alle cause che hanno contribuito alla nascita del paradigma della flessibilità è un obiettivo complesso. È necessario per questo individuare un corpo teorico capace di guidare il nostro sguardo in maniera funzionale al nostro obiettivo. Il nuovo spirito del capitalismo (1999), scritto da Luc Boltanski ed Ève Chiapello, si dimostra un valido supporto all’argomentazione che articoleremo in questa parte del lavoro.

Interessante è l’approccio adottato dai due sociologi francesi nel primo capitolo. La lettura dell’evoluzione dei rapporti di potere e delle gerarchie interne alle imprese viene condotta attraverso un’analisi qualitativa dei testi di management degli anni Sessanta e Novanta.  Come spiegano i due autori:

“La letteratura di management, in quanto letteratura pubblica finalizzata a suscitare l’adesione ai precetti esposti e l’impegno di un gran numero di attori – in primo luogo dei quadri, il cui zelo e la cui convinzione sono determinanti per il buon funzionamento delle imprese -, non può essere orientata unicamente verso la ricerca del profitto. Deve anche giustificare le modalità con cui viene ottenuto, deve fornire ai quadri argomenti per poter resistere alle critiche che certamente si leveranno se cercano di mettere in pratica i suggerimenti dispensati e per soddisfare le inevitabili esigenze di giustificazione di fronte ai loro subordinati e nelle altre arene sociali a cui partecipano” (Boltanski e Chiapello, 2011: 112)

Questo passaggio è utile tanto a Boltanski e Chiapello, per supportare la loro argomentazione, quanto lo è per noi, per sottolineare la rilevanza del loro pensiero, al fine di comprendere i meccanismi di riproduzione del sistema capitalistico. L’idea è che il capitalismo si riproduca assorbendo la critica ad esso rivolta e declinando la propria struttura in nuove forme.

I testi di management degli anni Sessanta, ad esempio, sono fortemente critici rispetto al modello di impresa egemone fino a quel momento. Si tratta dell’impresa di matrice taylorista che è caratterizzata, secondo gli autori, da una rigida gerarchia in cui l’accesso ai ruoli apicali è limitato ai vincoli di parentela. La rigidità strutturale dell’impresa taylorista inizia a essere limitante per gli interessi di una delle sue componenti essenziali, i quadri[1]. Le rivendicazioni di autonomia decisionale dei quadri e la loro visione di modernità sono, in quegli anni, uno dei temi centrali della letteratura del management industriale. Quest’ultima rivolge la propria critica sia alla dimensione macro, sia alla dimensione micro dell’organizzazione industriale.

Rispetto agli aspetti macro, si collocano al centro del dibattito la dimensioni della scala produttiva e la rigida burocrazia che ne determina gli equilibri. Interessante è il fatto che questi due aspetti non venissero criticati da una prospettiva meramente economica, ad esempio sottolineando la progressiva saturazione della domanda che si stava generando all’epoca, bensì in ragion del fatto che rappresentavano una minaccia per i valori della democrazia occidentale. Paradossalmente, anche il tessuto dell’economia sovietica era caratterizzato dalla presenza di imprese di grandi dimensioni e strutturate su gerarchie burocratizzate. In questa prospettiva possiamo intendere la critica rivolta al modello di impresa taylorista come il prodotto di un disallineamento tra sovra-struttura e struttura.

Per comprendere come l’economia capitalistica, la struttura, emerga vincente dal conflitto che instaura con la sovrastruttura, dobbiamo concentrarci sul piano micro della critica.

La dimensione interna alle imprese, a partire dagli anni Sessanta, è il riflesso dell’incorporazione dei valori di trasparenza e di uguaglianza. Questi valori, oltre a contrapporsi a quelli della società socialista, entravano in conflitto con i principi che caratterizzavano le società europee in quegli anni. Padronato, nepotismo e centralismo burocratizzato divengono le condizioni da superare per realizzare un nuovo modello d’impresa. Quest’ultimo, come sottolineano Boltanski e Chiapello, mostra due aspetti centrali: nuove logiche di avanzamento di carriera e una divisione netta «tra quadri salariati da un lato e padroni detentori del patrimonio dall’altro – conforme alla diffusione delle teorie dell’azienda che oppongono i direttori ai proprietari» (ibidem: 125).

I nuovi processi di avanzamento nella gerarchia professionale[2] sono particolarmente interessanti. Boltanski e Chiapello evidenziano come i nuovi criteri di valutazione aziendale rifiutino i giudizi personali, caratteristici del nepotismo, a favore di giudizi impersonali. Quest’ultimi valutano le capacità degli individui e, dunque, i risultati che si raggiungono rispetto ad un obiettivo dato. Non sono più le qualità ascritte a determinare lo status degli attori sociali, bensì quelle di tipo acquisitivo.

Quanto detto è interessante per supportare la nostra idea di riproduzione del sistema capitalistico. Emerge, infatti, la capacità del capitalismo di rimodulare la propria struttura in relazione alla critica ad esso rivolta. I valori di trasparenza ed equità che in quegli anni la letteratura del management adotta come vessillo, in contrapposizione al socialismo e all’ancien regime industriale dell’Europa, contribuirono alla produzione di nuove differenze sociali. È chiaro come la struttura abbia saputo far proprio il cambiamento che la sovra-struttura promulgava e così ha potuto riorganizzare la società, ancora una volta, secondo il suo modello.

Il modello teorico descritto da Talcott Parsons ne Il sistema sociale (1951), è forse la rappresentazione più efficace della società che emerge negli anni Sessanta. Per motivi di spazio non ci è possibile delineare, neanche in maniera sintetica, il complesso pensiero parsonsiano.

Tuttavia, anche l’analisi di Parsons fa riferimento alla perdita di consistenza delle qualità ascritte all’attore sociale (età, famiglia e luogo di appartenenza, etc.) rispetto alle qualità acquisite. Le vecchie differenze sociali, che facevano riferimento alle origini biografiche degli individui, sono sostituite da nuove differenze, relative alle capacità dei soggetti, che rispecchiano una diversa organizzazione e divisione del lavoro. Queste nuove differenze sociali sono legittimate dalla retorica delle pari opportunità, la quale sovrappone il valore di uguaglianza a quello di equità.

Il concetto di uguaglianza è coerente con i processi che, a partire dagli anni Sessanta, determinano lo status sociale degli individui. L’idea è che tutti i soggetti abbiano le medesime opportunità e il modo in cui queste vengono sfruttate determina il successo sociale di un individuo. L’equità, di contro, assume che vi siano differenze sociali che non permettono a tutti di raggiungere i propri obiettivi. Questo perché le qualità ascritte degli individui incidono sul tipo di qualità acquisitive a cui possono aspirare.

La letteratura relativa al management degli anni Novanta mantiene viva la critica degli anni Sessanta , rivolta alla struttura delle grandi imprese e alla loro burocrazia centralizzata, e affianca a questa nuove tematiche.

In particolar modo sono i rapporti di potere ad essere al centro del dibattito. Durante gli anni Sessanta i dispositivi di controllo all’interno delle imprese erano sublimati dal nuovo modo di intendere le gerarchie lavorative, fondate sulle qualità acquisite. I quadri vedevano negli obiettivi aziendali, definiti dai proprietari delle imprese, un campo in cui le rivendicazioni di autonomia e partecipazione alle decisioni aziendali, trovavano risposta. Boltanski e Chiapello aggiungono che:

“D’ora in poi il quadro sarà giudicato […] in funzione della maggiore o minore riuscita della sua attività, e non in funzione della sua remissività. Gli viene concessa una certa autonomia nell’organizzazione, gli viene dato un budget e verrà controllato non sulle singole decisioni, ma sul risultato globale. Grazie a questo ingegnoso dispositivo il padronato, pur attuando le riforme considerate necessarie dagli organizzatori, conserva il controllo. I quadri acquisiscono autonomia e le imprese possono usufruire di una forza lavoro rimotivata” (ibidem: 121-122).

Emergere qui il concetto bourdieusiano di dimensione simbolica del potere. L’analisi dei cambiamenti che si sviluppano a partire dagli anni Novanta evidenzia con enfasi il carattere simbolico del potere nella ristrutturazione delle gerarchie lavorative. Quest’idea è in contraddizione con quanto affermano i testi di management di quegli anni, secondo cui: «la gerarchia è una forma di organizzazione da bandire poiché fondata sul dominio» (ibidem: 127).

È pur vero che la critica alla gerarchia in questi anni assume un carattere molto più deciso rispetto a quella del periodo precedente, tant’è che viene elaborata una teoria volta a legittimarla. Questa teoria si fonda sull’idea che la società segua un percorso evolutivo che porta gli attori sociali a non voler né comandare né essere comandati (ibidem: 128). La necessità di individuare una teoria che legittimi l’eliminazione delle gerarchie lavorative, conferma la nostra idea controintuitiva per cui più che eliminare le gerarchie si contribuì a una loro ristrutturazione. Quanto detto diviene più chiaro analizzando il nuovo modello di organizzazione delle imprese, il cui pilastro è il concetto di flessibilità.

La letteratura del management degli anni Novanta, rispetto a quella degli anni Sessata, oltre a produrre argomenti critici rispetto all’organizzazione aziendale, promuove anche modelli concreti di impresa. La flessibilità appare come un aspetto innovativo che bisogna sfruttare per definire un modello d’impresa capace di resistere sia alle pressioni del mercato internazionale, sia a quelle interne ai mercati europei.

Se negli anni Sessanta furono le imprese americane a fare da esempio, negli anni Novanta l’onere è delle imprese nipponiche. Si sviluppa l’idea di «impresa snella» la quale, come affermano gli autori, «ha perso la maggior parte dei livelli gerarchici […]. Inoltre, ha eliminato un gran numero di funzioni e compiti subappaltando tutto ciò che non faceva parte del suo core business» (ibidem: 131). Non solo la produzione ma anche i rapporti interni all’impresa divengono flessibili e, di conseguenza, i ruoli degli individui. La forza lavoro, ad esempio, è chiamata a svolgere sia funzione produttiva, sia altre funzioni come la manutenzione del capitale fisso.

Il subappalto, a cui ci siamo riferiti prima, ha contribuito ad una trasformazione della gerarchia aziendale, che assume la forma di una rete estesa. Secondo gli autori «i confini dell’azienda diventano meno netti perché l’organizzazione sembra ormai costituita solo da un insieme di rapporti contrattuali più o meno duraturi» (ibidem: 132). I concetti di capo e di quadri vengono superati con l’identificazione di nuove figure dirigenziali che incarnano i valori del management.

Ai «capi gerarchici», sottolineano Boltanski e Chiapello, si sostituiscono i leader. La capacità di questi soggetti è quella di coinvolgere nel funzionamento dell’impresa tutte le unità lavorative, senza che ciò venga percepito come una coercizione. I leader sono dispositivi di controllo che fondano la propria logica funzionale nella dimensione simbolica del potere, la quale è mediata dalle loro qualità ascritte. Queste ultime non sono relative alle origini degli individui (classe, etnia, gene, etc.), bensì alle loro capacità trasversali. I leader legittimano la loro posizione grazie a un mito razionalizzato (Meyer e Rowan, 1977) che così potremmo sintetizzare: Questi soggetti per il fatto di essere carismatici, creativi e capaci di gestire le relazioni sociali, sono quelli che meglio si presentano per assumere ruoli dirigenziali.

Anche la posizione dei manager deve la propria legittimità a un mito di questo tipo. Boltanski e Chiapello si riferiscono a quest’ultimi in questo modo:

“I manager sono “intuitivi”, “umanisti”, “ispirati”, “visionari”, “generalisti” (in opposizione alla stretta specializzazione), “creativi”. Il mondo del manager si contrappone a quello del quadro come il mondo reticolare si oppone a quello categoriale. Il manager è l’uomo delle reti. La sua qualità principale è la mobilità, la capacità di spostarsi senza lasciarsi fermare dalle frontiere.” (Boltanski e Chiapello, 2011: 137)

Riprendendo l’idea di rete con cui Boltanski e Chiapello definiscono la struttura gerarchica di queste nuove imprese potremmo intendere i leader come gli hub centrali, mentre i manager come coloro che sono capaci di colmare i buchi strutturali (Burt, 2005).

Leader e manager sono affiancati da due altre figure, quella del coach e quelle dell’esperto. Sebbene il ruolo di coach possa essere svolto dagli stessi manager, quella dell’esperto è una posizione autonoma i cui confini sono definiti in questo modo:

“Non gli si chiede di gestire équipe, questo è compito del manager. Affinché ciascuno possa sviluppare il proprio talento in modo più produttivo – il manager la mobilitazione degli uomini e l ’esperto la performance tecnica – , gli autori della letteratura di management sanciscono definitivamente la separazione tra queste due figure, mentre negli anni sessanta si sperava ancora che, grazie a un buon “sistema di direzione” (una buona pianificazione e un buon processo di fissazione degli obiettivi), fosse possibile fare di qualsiasi ingegnere competente un manager” (Boltanski e Chiapello, 2011: 138).

L’ultimo aspetto che bisogna sottolineare è relativo alle forme di coinvolgimento tipiche degli anni Sessanta e Novanta. Negli anni Sessanta il coinvolgimento all’interno del modello era veicolato attraverso la sicurezza che il salario e il sistema di welfare davano agli individui. Il contratto di lavoro era il risultato della trasfigurazione del senso di sicurezza dei lavoratori. Nel vecchio modello, sia il reddito, sia la sicurezza sociale, la reputazione e la posizione gerarchica in seno alla società vengono mediati dal lavoro che si svolge e dalla considerazione sociale ad essa attribuita (Beck, 2000)

La letteratura del management e il tema della flessibilità cambiano le regole del gioco. In una realtà in cui si esaltano le capacità polivalenti degli individui e la loro creatività il coinvolgimento avviene con la promessa della realizzazione dei propri interessi. Infatti «Il nuovo modello […] propone una “vera autonomia”, fondata sulla conoscenza di sé e sulla realizzazione personale, e non la falsa autonomia, inquadrata dal percorso della carriera» (Boltanski e Chiapello, 2011: 152).

Tuttavia la realtà degli anni Novanta è condizionata da un forte mismatch tra, quelli che Robert K. Merton ha definito, mete culturali e mezzi istituzionali. La flessibilità produce nuovi soggetti anomici, i precari.

La loro condizione è dovuta al fatto che questi agiscano in una realtà in cui vi è un pluralismo di ruoli flessibili e creativi che però sono limitati a un numero ridotto di figure professionali, ad alto reddito e ad alta specializzazione. Queste figure possono permettersi di rinunciare a contratti lavorativi di tipo subordinato perché molte sono le opportunità loro offerte. Nei ruoli professionali meno specializzati e a minore contenuto creativo e innovativo la flessibilità non rappresenta però un valore. La mancanza di un contratto a tempo indeterminato definisce, infatti, apriori il ruolo del precario: sì pensi ad esempio alle categorie di lavoratori co.co.co e co.co.pro[3].

La precarietà costituisce un carattere acquisito, che ancora di più esclude questi soggetti da una realtà in cui lo status sociale è strutturato su nuove qualità ascritte (creatività, carisma, capacità di leadership ecc.). La logica della flessibilità, esaltata nei manuali di management, si trasforma, per chi è escluso dal mercato del lavoro, in precarietà lavorativa, in disponibilità ad accettare lavori dequalificati e a termine, dando così vita a un nuovo esercito industriale di riserva. 

 

 

3. Flessibilità e democrazia. La proposta di Richard Wolff

 in questa parte del nostro lavoro presenteremo il pensiero dell’economista Richard Wolff, focalizzando la nostra attenzione sulla terza parte del suo lavoro, Democracy at work. A cure of capitalism (2012). L’interesse per questo autore deriva dal fatto che la sua analisi, partendo dalla consapevolezza della crisi del sistema capitalistico, non produce una lettura pessimistica ma, a differenza del testo di Boltanski e Chiapello, propone alternative di natura pedagogica e operativa.

L’economista, infatti, cerca di elaborare un modello di impresa che, grazie al tipo di organizzazione interna, non permette la riproduzione dello “spirito del capitalismo”. Si tratta delle imprese dirette autonomamente dai lavoratori. Queste vengono definite da Wolff confrontandole con altri tre modelli di impresa: le imprese di proprietà dei lavoratori, le imprese gestite dai lavoratori e le cooperative. I diversi modelli d’impresa vengono analizzati in relazione ai ruoli che la forza lavoro può svolgere, vale a dire proprietario, manager e membro del consiglio di amministrazione.

Wolff apre il terzo capitolo del suo libro affermando che, agli albori del secondo collasso del capitalismo privato, il mondo si trova ad un bivio e che sia necessario individuare un modello socioeconomico alternativo. È bene sottolineare che Wolff si discosta dalla tradizionale idea manichea che vede agli antipodi il capitalismo occidentale e il socialismo tradizionale.

Infatti, Il capitalismo secondo l’autore assume due volti: quello del capitalismo privato e quello del capitalismo di stato. Quest’ultimo modello, tipico dei paesi dell’ex blocco sovietico, fu il primo a mostrare la fallacia di un sistema strutturato su rigidi rapporti di potere, dando la possibilità al capitalismo privato di affermarsi come sistema dominante. Wolff sottolinea come il modello del private capitalism mostri anch’esso i suoi limiti, a causa dei grandi squilibri che ha generato. Questi disequilibri sono in particolare connessi ai disastri ambientali, all’iniqua distribuzione delle ricchezze e alla crescente povertà. La prospettiva adottata da Wolff produce una sovrapposizione tra capitalismo e socialismo di stato tale da spingere l’autore ad affermare che:

Finché i critici del capitalismo privato non indicheranno un’alternativa diversa rispetto a un capitalismo privato più regolato o da un capitalismo di stato (socialismo tradizionale), essi non ispireranno […] un movimento sociale capace di uscire dalle ripetute oscillazioni tra [capitalismo privato e capitalismo di stato]. […] Le classi lavoratrici risponderanno a entrambi i [tipi di critica], come hanno già implicitamente fatto: “No, grazie, ci siamo già passati. È un vicolo cieco”. (Wolff, 2012, p.111).

Questa citazione permette di fare un ulteriore passo in avanti nell’analisi del lavoro dell’economista americano. Bisogna, dunque, chiedersi quale sia la posizione di Wolff nel dibattito sul capitalismo.

Wolff crede nell’ impossibilità di attuare un cambiamento sovra-strutturale in assenza di una base strutturale che lo permetta. Nel lavoro dello scienziato sociale è centrale l’idea che la società possa assumere nuove forme grazie all’azione collettiva. Affinché questo avvenga è però necessario che gli attori sociali organizzino le proprie volontà individuali all’interno di un movimento sociale capace di rompere con le tradizioni del capitalismo privato e di stato.

L’economista marxista sottolinea come l’assenza di una dinamica aggregativa e collettiva, capace di ristrutturare la società, sia imputabile all’assenza di una dialettica da cui possa scaturire il mutamento. Per superare questa fase di stallo, l’autore propone una teoria che al contempo fornisce mezzi pedagogici e operativi. Il cambiamento, secondo la logica proposta da Wolff, opera a livello macro-economico e fa riferimento ad un tipo di ristrutturazione dell’intera società che ha però origine da un cambiamento dell’assetto decisionale delle aziende. L’autore identifica nelle imprese dirette dai lavoratori (WSDE) gli agenti economici capaci di formulare un nuovo modello socioeconomico. 

Attraverso uno stravolgimento dei normali processi decisionali, le WSDE promuovono lo sviluppo di un apparato democratico non solo nelle aziende, ma anche nelle comunità in cui queste agiscono.

Le imprese proposte da Wolff presentano tre specificità:

1 le decisioni aziendali sono prese democraticamente e collettivamente;

2) le aziende presentano una composizione eterogenea della forza-lavoro: i produttori e i ‘fattori facilitanti’;

3) è forte la dimensione comunitaria, in cui le decisioni aziendali devono necessariamente considerare le differenti relazioni che si sviluppano dal piano locale fino a quello nazionale.

Il primo carattere delle WSDE rappresenta il cardine su cui si sviluppa la teoria del cambiamento elaborata da Wolff. Il cambiamento strutturale all’interno dei processi decisionali muta le vecchie gerarchie. Tale trasformazione incide sulla redistribuzione del potere attraverso la divisione dei compiti all’interno delle aziende. Nelle aziende classiche, il Consiglio d’Amministrazione (board of directors) assume una posizione egemone poiché decide in maniera autoreferenziale la quantità e i modi di distribuzione del surplus.

Secondo Wolff, tale impostazione dei rapporti di potere è alla radice dei problemi del sistema capitalistico. All’interno delle WSDE, l’iniquità di questa logica non potrebbe svilupparsi, poiché coloro che producono il surplus, ovvero i lavoratori sfruttati dal private capitalism, sono anche coloro che decidono sia i modi di produzione, sia sulla distribuzione del surplus. Per sintetizzare questo cambiamento con un’immagine, potremmo descrivere un lavoratore che il lunedì indossa il caschetto e impugna il martello e poi, il giorno successivo, annoda la cravatta e afferra la ventiquattrore.

Il fatto che coloro che producono il surplus siano anche coloro che ne gestiscono la distruzione, i modi e la quantità prodotta, è fondamentale al fine di caratterizzare le WSDE come soggetti capaci di rappresentare una concreta alternativa al sistema socioeconomico egemone, nonché come entità socioeconomiche innovative. L’originalità delle aziende dirette autonomamente dai lavoratori è rappresentata dal particolare modo di organizzazione dell’attività produttività.

Wolff, infatti, presenta tre differenti modelli di impresa che, sebbene vedano la forza lavoro assumere ruoli diversi rispetto alla semplice attività di produzione, hanno poco in comune con le WSDE. I tre modelli d’azienda presentati dall’autore sono le imprese di proprietà dei lavoratori, le imprese gestite dai lavoratori e le cooperative.

 

Nel primo modello la forza lavoro, oltre a svolgere la sua normale attività di produzione del surplus, diviene azionista dell’impresa e dunque il suo reddito viene integrato dai dividendi derivanti dalle azioni. Il fatto che la forza lavoro risulti proprietaria dell’azienda non muta la sua posizione di subordinazione nei confronti del consiglio di amministrazione. Di fatto, è quest’ultimo a decidere la politica dell’impresa e il livello di dividendi da allocare tra gli azionisti. Sebbene tale modello permetta ai lavoratori di partecipare alle elezioni del consiglio, è sempre quest’ultimo ad avere potere di veto sulle decisioni aziendali (ibidem: 113-115).

Nel secondo modello, quello delle imprese gestite dai lavoratori, la forza lavoro assume il ruolo di manager e ciò implica un rafforzamento dei vincoli gerarchici a cui sono sottoposti i lavoratori. Il concetto di gestione non può essere sovrapposto a quello di decisione. Quest’ultima rimane una prerogativa dell’attività del consiglio di amministrazione. Wolff sottolinea come l’ampliamento della responsabilità, e quindi degli incarichi della forza lavoro all’interno dell’azienda, sia legato a fattori economici assimilabili alla necessità del consiglio di amministrazione di ridurre i costi, eliminando i manager esterni e creandone di interni. Quanto detto rispetto a questo secondo modello è coerente con i processi di ristrutturazione aziendale proposti dalla letteratura del neo-management (Boltanski e Chiapello, 2011: 131). In particolar modo, ci riferiamo al processo di gestione interna di tutte le attività funzionali alla competitività di mercato. (Wolff, 2012: 115-116)

Il terzo è ultimo modello è quello delle cooperative. Wolff seguendo una logica comparativa, sottolinea le profonde differenze tra cooperative e imprese dirette autonomamente dai lavoratori.  Rispetto a quest’ultime, le cooperative declinano il principio di cooperazione in una forma del tutto diversa. Wolff considera l’esempio di un campo acquistato collettivamente e sottolinea come in questo caso non si sviluppino le dinamiche democratiche tipiche delle WSDE. Nel caso della terra comune solo la proprietà è vincolata ad un soggetto collettivo, mentre le decisioni produttive sono lasciate a discapito del singolo membro della cooperativa. Come afferma l’autore: «[d]ue fatti definiscono le WSDE: l’appropriazione e la distribuzione del surplus avvengono in modo cooperativo: i lavoratori che cooperativamente producono il surplus e quelli che cooperativamente se ne appropriano e lo distribuiscono coincidono» (ibidem: 116. Trad. mia).

Dopo aver presentato questi tre modelli d’impresa e sottolineato le caratteristiche uniche delle imprese dirette autonomamente dai lavoratori è necessario evidenziare alcuni aspetti interni a queste ultime.

Anzi tutto, le imprese dirette autonomamente dalla forza lavoro sono caratterizzate dalla presenza di due gruppi di lavoratori.

Nel primo gruppo rientrano i lavoratori che producono il surplus e che costituiscono al contempo il consiglio di direzione.

Il secondo gruppo è costituito dai lavoratori che Marx definirebbe come improduttivi[4] (Ibidem: 130). Wolff, invece, definisce questa forza lavoro come «fattori facilitanti»[5], in quanto sono impiegati solo indirettamente nella produzione di surplus, svolgendo un ruolo di supporto.

Il rapporto di collaborazione tra questi due gruppi si sviluppa attraverso il riconoscimento di una naturale interdipendenza. Quest’ultima è data, oltre dai rapporti che si sviluppano tra mansioni lavorative, dall’apparato decisionale che permette ad ogni lavoratore dell’azienda di avere diritto di veto sui livelli del salario percepiti dalle diverse componenti della forza lavoro. I fattori facilitanti, nonostante il loro ruolo, sono esclusi dalle decisioni relative alla produzione e allocazione di surplus. Queste attività rimangono una prerogativa del primo gruppo.  (Ibidem: 122-123)

Resta da sintetizzare il rapporto cooperativo tra WSDE e territorio. Una delle esternalità positive prodotte dalle imprese dirette autonomamente è una nuova visione del rapporto tra lavoro, produzione e ambiente.

Le comunità in cui nascono le imprese dirette autonomamente sono le stesse in cui risiede la loro forza lavoro. Ciò implica che le stesse comunità hanno potere decisionale e che i modi di produzione, la quantità prodotta e l’allocazione sono il riflesso di interessi comunitari.

Inoltre, Wolff sottolinea come questo rapporto, e il fatto che la comunità influenzi le decisioni relative alla produzione, sia risolutivo di numerose contraddizioni del capitalismo moderno, come ad esempio il rapporto tra tecnologie e disoccupazione (Wolff, 2016). Questo rapporto tra WSDE e territorio non tiene conto, tuttavia, delle recenti evoluzioni dell’organizzazione del lavoro, rafforzate dalla pandemia.

Il lavoro è spesso delocalizzato, nel senso che si può lavorare online, in contesti domestici, separati da una rete relazionale di comunità. Su questo aspetto, il testo di Wolff, scritto nel 2012, non ci dà indicazioni. Il lavoro agile non elimina, però, totalmente il legame con la comunità, dal momento che solo alcuni lavori sono trasferibili utilizzando forme di lavoro domestico online. È anche vero che la comunità non è ormai solo un concetto legato a territori specifici, ma a interessi e bisogni condivisi (si pensi alle comunità virtuali).

Le WSDE potrebbero quindi rispondere anche a nuovi bisogni di comunità allargate, accomunate per esempio dagli stessi ideali di giustizia, equità o responsabilità ecologica e quindi svolgere la loro funzione innovativa.

Uno dei principali problemi che ha afflitto sia il modello del private e dello state capitalism è stato il rapporto che si instaura tra le nuove tecnologie e il livello di input.

Lo state capitalism precedette nel fallimento il private capitalism, poiché la sua cultura organizzativa impediva la riduzione della forza lavoro a favore di nuove tecnologie.

Nel private capitalism avviene, invece, il contrario. Le nuove tecnologie generano un incremento della disoccupazione.

Nelle WSDE, per ovviare a questo problema, si adotterebbe un meccanismo di rotazione, tale da favorire l’adozione di nuove tecnologie senza che queste producano disoccupazione. Perché questo processo si sviluppi in modo regolare e naturale, afferma Wolff, sono necessarie delle agenzie che spostino il surplus di lavoratori dalle aziende dove si sviluppano nuove tecnologie alle aziende nascenti o in trasformazione (Wolff, 2012: 124-125).

Analizzando invece la soluzione relativa al problema della distribuzione del salario, la logica della rotazione assume una nuova direzione. Se prima la rotazione era tra aziende, ora la rotazione avviene tra i diversi impieghi che un individuo può svolgere. Di fatto, affinché si attui una distribuzione equa dei salari, Wolff promuove un sistema in cui gli individui possono cambiare la propria mansione all’interno dell’azienda, o spostandosi in un’altra impresa. Tale logica, oltre a superare l’iniquità del vecchio sistema di distruzione della ricchezza, permette agli individui di potenziare le proprie competenze, e dunque il sistema produttivo (ibidem: 128-130).

 

 

4. Conclusioni

Quello che Wolff propone è un modello interessante di produzione in cui la gerarchia dell’impresa viene sostituita da processi democratici. Per Wolff è però anche un modello che potrebbe avere ripercussioni sull’organizzazione della società, superando sia le rigidità del capitalismo di stato sia i disequilibri causati dal capitalismo privato. Un modello che connette produzione, democrazia ed etica e che si propone di risolvere i problemi della società contemporanea, in particolare la crisi ambientale e la crescita delle diseguaglianze.

L’aspetto interessante del modello d’impresa proposto da Wolff è il fatto che la flessibilità ne rappresenta un elemento costitutivo. Tuttavia, questa si esprime in termini diversi rispetto a quanto visto con Boltanski e Chiapello.

L’economista americano non fa direttamente riferimento al concetto di flessibilità, bensì a quello di rotazione (ibidem: 128). I ruoli all’interno delle WSDE possono essere intesi come flessibili poiché ogni lavoratore avrà svolto, nel corso della sua vita lavorativa, più di una mansione. La rotazione dei ruoli influenza dimensioni organizzative diverse dell’impresa, a seconda del tipo di problema a cui deve rispondere.

Wolff, ad esempio, crede che la rotazione all’interno del consiglio di amministrazione sia uno strumento valido per: «evitare di reificare le persone in posizioni fisse di manager, posizioni che potrebbero eventualmente aprire la strada a un ritorno al capitalismo» (ibidem: 120). Inoltre, Il meccanismo di rotazione proposta da Wolff è funzionale ad altri due obiettivi, l’eliminazione delle disparità salariali all’interno delle aziende e il potenziamento delle capacità dei lavoratori attraverso il «learning by doing» (ibidem: 129).

Wolff, rispetto al primo obiettivo, sottolinea come le differenze di reddito, dovute al tipo di mansione svolta, possano essere appianate attraverso una rotazione degli incarichi non dirigenziali, che non rientrano nelle mansioni del consiglio di amministrazione, tra i lavoratori (ibidem).

La realizzazione del secondo obiettivo permetterebbe di acquisire quella serie di qualità e competenze che il mito razionalizzato, presentato nella prima parte del nostro lavoro, definiva come ascritte e, dunque, legittimanti dei ruoli di manager e leader.

Il modello proposto da Wolff è interessante se confrontato con il pensiero di un altro autore, Erik Olin Wright. La dialettica trasformativa proposta dall’economista americano fa propri processi che possono essere ricollegati a due delle logiche trasformative presenti in Transforming Capitalism through Real Utopias (2011). Scritti nello stesso periodo[6] entrambi i lavori si preoccupano di formulare una teoria che fornisca sia i mezzi pedagogici, sia quelli operativi per attuare il cambiamento.  Wright individua tre meccanismi attraverso cui è possibile realizzare una trasformazione sistemica della realtà capitalistica, le logiche di rottura, le logiche simbiotiche e le logiche interstiziali (Wright, 2011: 20-22).

Rispetto a quanto vogliamo analizzare sono interessanti la seconda e terza logica, sebbene per la simbiotica sia necessario fare alcune precisazioni.

Le logiche interstiziali, che sono quelle identificabili con maggior facilità nel modello di Wolff, sono definite da Wright come pratiche capaci di rappresentare uno spaccato all’interno della realtà capitalistica da cui emergono nuove rappresentazioni del lavoro e della vita sociale. Inoltre, il potenziale di queste logiche risiede nella loro capacità di attivare processi di cambiamento cumulativi. Le imprese dirette autonomamente dai lavoratori sono, di fatto, strutture che nascono nel mercato capitalistico, per poi distanziarsi adottando logiche di produzione e di organizzazione dei rapporti sociali che si oppongono al modello dominante.

È evidente come ciò non bastì a produrre un cambiamento strutturale della realtà capitalistica. Torna utili presentare le logiche simbiotiche, che sono intese da Wright come azione mediata attraverso le istituzioni dominanti, il cui obbiettivo è migliorare gli aspetti critici delle stesse. Dunque, secondo questa logica il cambiamento si strutturerebbe, inizialmente, da un confronto con le istituzioni (Wright si riferisce al concetto di Stato), le quali avrebbero poi l’onere di promuoverlo nella società.

Questa logica se indentifica nel corpo teorico proposto da Wolff ci permette di cogliere i meccanismi attraverso cui si realizza il cambiamento secondo l’autore. Tuttavia, il processo simbiotico è da indentificare nel rapporto di interdipendenza che si struttura tra  WSDE e il movimento sociale che ne promuove le istanze e ne incarna i valori.

Le istituzioni a cui si riferisce Wolff sono quelle che nascono dalla compresenza delle WSDE e di un movimento sociale all’interno di un territorio. Inoltre, Il concetto di istituzioni deve essere inteso nel senso sociologico più esteso del termine, che fa riferimento sia a strutture fisiche, sia all’insieme di norme formali e informali che organizzano la vita sociale.

Mettendo a raffronto il lavoro di Wolff con quello di Boltanski e Cappello è evidente come Wolff proponga una visione maggiormente ottimistica. Mentre i due autori francesi sottolineano come il sistema capitalistico sia in grado di fare proprie le critiche, di assimilarle e di mantenere così il proprio dominio, Wolff cerca di individuare meccanismi di opposizione al sistema, in grado di metterlo in crisi evidenziando, all’interno di nuove prassi di produzione e organizzazione dell’impresa, la possibilità di alternative.

Nella prospettiva di Wolff la flessibilità non è una nuova forma di controllo ma può diventare, se coordinata dai lavoratori all’interno di scelte consapevoli, una forma nuova di rapporto tra lavoratore, impresa, produzione e lavoro. Sebbene a tratti il lavoro di Wolff possa sembrare eccessivamente utopistico (almeno quanto il lavoro dei due autori francesi possa apparire sconfortante), la sua analisi ha del potenziale. Questa risiede nella componente insieme pedagogica e pragmatica delle sue riflessioni. Produrre cambiamento culturale (componente pedagogica) e non solo organizzativo ed economico (componente pragmatica) può rappresentare un elemento di interdizione del processo di riproduzione del capitalismo, poiché il senso del cambiamento si strutturerebbe non a priori, ma come processo culturale in fieri. 

 

 

 

 

Note: 

[1] «Il quadro tipico dell’epoca è anzitutto l’ingegnere – e, in secondo luogo, quello di staffetta della direzione, che trasmette gli ordini dall’alto e riferisce in alto i problemi provenienti dal basso» (ibidem: 119)

[2]Parliamo di gerarchie poiché, come affermano i due autori, «[l]’emancipazione dei quadri avviene all’interno di uno scenario in cui la gerarchia non viene messa in discussione. Si consiglia di renderla più trasparente» (ibidem).

[3] Emilio Reyneri nel terzo capitolo del suo manuale, Sociologia del mercato del lavoro: II. Le forme dell’occupazione. (2006), analizza in maniera dettagliata il rapporto tra flessibilità e instabilità occupazionale (pp. 73-143).

[4] Marx Propone una differenziazione tra lavoratori produttivi e improduttivi. I lavoratori improduttivi sono coloro che non contribuiscono direttamente alla produzione di capitale. 

[5] “segretarie, impiegati, receptionist, guardie di sicurezza, personale di pulizia, e così via, che mantengono le carte e gli spazi fisici che forniscono le condizioni necessarie al primo gruppo di lavoratori per produrre un surplus. Altri tipi di facilitatori includono manager, avvocati, architetti e consulenti” (Wolff, 2012: 122. Trad. mia).

[6] Il lavoro di Wolff è del 2012, mentre il saggio di Wright è del 2011. Inoltre, entrambi i lavori si confrontano con una realtà profondamente segnata dalla crisi del 2008.

 

Bibliografia:

Boltanski, L. e Chiapello, E., Le nouvel espirit du capitalisme, [1999], tr. it. Il nuovo spirito del capitalismo. Milano-Udine, Mimesis, 2011.

Burt, R. S., ll capitale sociale dei buchi strutturali. Milano, Angeli, 2005. 

Meyer, J.W., Rowan B. (1977). Institutionalized Organizations: Formal Structure as Myth and Ceremony. In «The American Journal of Sociology», 83, 2, pp. 340-363.  

Reyneri, E., Sociologia del mercato del lavoro: II. Le forme dell’occupazione. Bologna, Il Mulino, 2006.

Talcon, P., The social system, [1951], tr. It. Il sistema sociale. Milano, Edizioni di comunità, 1965.

Wolff, D. R., Democracy at Work: A Cure for Capitalism. Haymarket Books, Chicago, 2012.

Wolff, D. R., Start with Worker: Self-Directed Enterprises. The next system project, online: https://thenextsystem.org/sites/default/files/2017-08/RickWolff.pdf (ultima visita il 30 dicembre 2021).

Wright, E. O., (2012). Transforming Capitalism through Real Utopias. In «American Sociological Review», XX(X), pp. 1 –25.

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