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DALL’ITALIA LIBERALE A QUELLA FASCISTA: UN PUNTO DI VISTA COLONIALE

Spesso nel racconto di quel periodo storico che va dall’Unità d’Italia nel 1861 all’avvento del Fascismo nel 1922 si esaltano, ieri come oggi, valori risorgimentali e liberali come l’amor di patria, l’onore, la lotta per la libertà e la giustizia come caratteristiche salienti del Belpaese, della sua politica interna e internazionale. L’Italia ottocentesca e del primo Novecento viene così contrassegnata come una neonata nazione con poche velleità imperiali, incentrata sullo sviluppo economico interno e sull’unità nazionale. Sembra quasi che sia estranea al gioco delle Grandi Potenze che si spartiranno l’Africa, dal 1870 al 1914, per non farsi guerra sul continente europeo e che i pochi possedimenti italiani d’oltremare siano poca cosa. Arrivando poi al primo conflitto mondiale, l’incertezza dell’Italia sull’entrata in guerra sembra quasi una riprova del suo essere un “intruso” negli affari del Vecchio Continente.

Dopo aver dipinto questo contesto la storiografia tradizionale pone l’avvento del Fascismo come una conseguenza del trattamento riservato all’Italia nel dopoguerra – nonostante sia una delle Potenze vincitrici – come se fosse una naturale conseguenza. Depauperata dei compensi per la vittoria, la più piccola tra le Grandi Potenze vuole fare la voce grossa e riprendersi ciò che le è stato tolto. Si sveglia così fra la presa di Fiume, la Marcia su Roma e il delitto Matteotti in un tripudio nazionalista, populista e reazionario fatto di braccia tese, costanti richiami al passato imperiale di Roma e a una mitologia di superiorità dell’uomo romano e fascista sul resto del pianeta.

Tuttavia, ad un più attento esame storico, è evidente che l’Italia ha abbandonato da ben prima della “vittoria mutilata” gli ideali risorgimentali e che, come già evidenziato da alcuni storici, le avvisaglie di un proto-fascismo si possono già vedere almeno dalla metà degli anni ’80 dell’800.
In particolare, queste risultano evidenti dall’esame di due contesti d’azione privilegiati dell’Italia liberale: il Meridione e le Colonie. I quali, anzi, possono essere pure collegati: difatti, Del Boca, forse il maggior africanista italiano, nella sua monumentale opera in quattro volumi “Gli italiani in Africa Orientale” si chiese, e a ragion veduta, cosa sarebbe successo se i Savoia e il Parlamento avessero deciso di spendere i fiumi di denaro che sono stati destinati alle colonie per il Meridione. Ma questo rimarrà materiale per romanzi e romanzieri… Lo stesso poi si può dire del Fascismo che, nella gestione e del Meridione e delle Colonie, continuerà nel solco tracciato dallo Stato liberale, solo più efficientemente.

L’imperialismo italiano, iniziato nel 1869 e terminato nel 1960, è sicuramente uno dei più brevi di tutta l’esperienza europea, ma possiede un’importanza storica determinante. Da una parte è stato categorizzato come “straccione” da Lenin, nel senso di povero di uomini, mezzi, territori e dunque di ben poco conto. E dall’altra dal mito degli “Italiani brava gente”, i conquistatori dal cuore tenero, buoni, affabili e tutt’altro che approfittatori come furono gli altri europei. La verità, per citare i romani quelli veri, sta nel mezzo. Innanzitutto, con la sconfitta dell’Italia liberale ad Adua nel 1896, tutto il mondo seppe (e in particolare il mondo abitato dai neri) che gli europei si potevano sconfiggere, che il mito dell’uomo bianco stava tramontando e che la differenza la facevano l’unità, l’organizzazione e le tecniche militari moderne. Inoltre, con la guerra di aggressione dell’Italia Fascista nei confronti dell’Impero d’Etiopia nel 1935 il meccanismo di sicurezza collettiva istituito dalle Grandi Potenze per scongiurare la Seconda Guerra Mondiale, la Società delle Nazioni (l’antesignana dell’odierna ONU), fallì definitivamente e avvicinò l’Europa alla catastrofe, Mussolini ad Hitler e il mondo intero all’avvento del conflitto bipolare.

Adua fu la più grande vittoria di un regno africano contro gli europei e la campagna d’Etiopia fu la più grande spedizione coloniale di sempre, altro che straccioni o brava gente!

Comunque, quali sono gli elementi proto-fascisti dell’Italia liberale? Primo fra tutti emerge la testimonianza di Ferdinando Martini, governatore d’Eritrea dal 1897 al 1907, considerato forse il miglior amministratore coloniale civile dell’epoca liberale per le sue qualità di umanista e conciliatore. Intratteneva corrispondenze con personalità del calibro di Verga, Pascoli, D’Annunzio e Carducci. Nelle sue memorie afferma: “Chi dice che s’ha da incivilire l’Etiopia dice una bugia o una sciocchezza. Bisogna sostituire razza a razza: o questo o niente [corsivo mio, N.d.A.]. […] All’opera nostra l’indigeno è un impiccio; ci toccherà dunque, volenti o nolenti, aiutarlo a sparire, come altrove le Pelli Rosse […] noi abbiamo cominciato, le generazioni avvenire seguiteranno a spopolare l’Affrica de’ suoi abitatori antichi, fino al penultimo. L’ultimo no: l’ultimo lo addestreremo in collegio a lodarci in musica, dell’avere, distruggendo i negri, trovato finalmente il modo di abolire la tratta”.

Ma se l’idea di un Martini umanista è più che tramontata con questa citazione è bene ricordare anche che l’Eritrea, sotto Martini, verrà soprannominata “Granducato di Toscana” perché questi la governerà come un sovrano e perché Martini è di Monsummano Terme, tuttavia qui la pena di morte non verrà abolita come nella Toscana leopoldina ma addirittura – sempre citando il governatore stesso – “non ho mai avuto fama di sanguinario e in verità non la merito; ma qui senza pena di morte non si governa”.

Se Martini rappresenta l’esempio di come un civile concepisce l’impresa africana dell’Italia allora Francesco Crispi e Oreste Baratieri sono il suo corrispettivo nell’ambito governativo e militare. Delle tante malefatte, imbrogli e voltafaccia – spesso compiuti con una leggerezza e una cafonaggine da durare poco meno di un cammello al Polo Nord – svetta il Trattato di Uccialli, la causa della guerra che culminerà con la sconfitta di Adua.

Sono stati spesi fiumi di inchiostro su questa pagina di storia coloniale ma vediamone alcuni punti salienti. Il trattato stabiliva l’amicizia fra Regno d’Italia ed Impero d’Etiopia e fu siglato poco dopo l’ascesa al trono di Menelik II ad Imperatore. Il pomo della discordia fu l’articolo 17 e le sue due versioni. Nella versione amarica, la lingua principale dell’Etiopia, si diceva che l’Impero può servirsi dell’Italia nelle sue relazioni estere qualora ne senta la necessità mentre nella versione italiana si dice che l’Impero delega all’Italia le sue relazioni estere. Firmato nel maggio 1889 il trattato, a Novembre Crispi notificherà alle Potenze europee che, per via di questo articolo, l’Etiopia diventa un protettorato italiano.

Menelik, lungi dal voler sottomettersi all’Italia dopo una lotta di potere durata 17 anni e con uno degli eserciti più forti del continente, denuncia l’Italia. Ma se il colpo di mano – o meglio d’inchiostro – di Crispi è smascherato di fronte al mondo intero quest’ultimo, nell’ottobre 1889 ovvero prima che sia reso pubblico l’inganno, crede di aver compiuto un’azione da grande statista e a Palermo, in un discorso pubblico, afferma: “L’Etiopia ci stende la mano. […] Un vastissimo regno si aprirà alla nostra industria e commercio senza sacrifici di sangue, con un denaro messo al sicuro e largo frutto.”

L’imbroglio da quattro soldi di Crispi potrebbe anche essere divertente se non si facessero giochi di prestigio di bassa lega con migliaia di vite. La scarsa conoscenza della situazione generò in Italia un clima di spensierata allegria, in particolar modo dopo che le altre potenze riconobbero il protettorato (anche se poco fiduciose della sua sostanza), come se davvero fosse possibile acquisire fare un protettorato della più potente nazione africana con un colpo di penna. Menelik scoprì il bluff ma mantenne comunque un atteggiamento pacifico e conciliatorio mentre Crispi – caduto come Presidente del Consiglio nel ’91 e ritornato al potere nel ’93 – darà seguito ad Uccialli con una serie di provocazioni che sfoceranno nella guerra e nella sconfitta di Adua, grazie al generale Baratieri, il governatore d’Eritrea. Baratieri, di concerto con Crispi, e in barba ad una gestione democratica della cosa pubblica, ordirà una trama che andrà contro le opinioni di tutti gli altri ministri del Regno e, in accordo con Crispi – che chiama “mio illustre e onorato duce” – condurrà a morte, ad Adua, più italiani che in tutte le guerre di indipendenza.

Baratieri e Crispi oramai giocano d’azzardo, in una spirale di megalomania che li porterà a pensare di poter conquistare anche Sudan ed Egitto, nonostante il tiepido supporto del governo. Difatti, dopo i primi vittoriosi scontri successivi all’invasione del nord dell’Etiopia. Baratieri afferma, riferendosi al Sudan, “Chi darà quest’urto, noi o gli inglesi? È difficile prevederlo, ma è probabile che la gloria di ridonare la pace al Sudan possa toccare all’Italia che ormai in Africa sta prendendo il primo posto fra le nazioni colonizzatrici”. Il delirio è antecedente di poco ad Adua e testimonia la sprovvedutezza, la totale ignoranza del contesto militare e la pochezza di uno dei, supposti, migliori comandanti del Regio Esercito. Ma se a quest’esaltazione iniziale la risposta di governo e Parlamento fu di salire sul carro dei vincitori, alla caduta di Baratieri le conseguenze furono più che tiepide. Crispi sì terminò la sua carriera politica e Baratieri quella militare, ma al processo che si terrà ad Asmara tutti gli alti gradi militari verranno assolti con formula piena. Ad ulteriore riprova di questa superficialità di fondo, Baratieri fino a pochi momenti prima della battaglia di Adua crederà di scontrarsi con 50 mila etiopici armati dei più moderni fucili ed artiglieria mentre in realtà i nemici saranno 100 mila e inoltre, dimostrando un pensiero strategico spinto dalla vanagloria più che dal realismo, penserà di poter vincere in campo aperto con solo 20 mila soldati.

Le testimonianze riportate attestano il razzismo e l’intento genocidario da parte dell’umanista Martini – ex Ministro dell’Istruzione – il pressappochismo, le velleità imperiali, l’attenzione alla forma più che alla sostanza di governo e militari che condanneranno al fallimento il colonialismo italiano d’epoca liberale. Tutto ciò farà emergere gli elementi proto-fascisti della società dell’epoca e che il regime porterà alle sue estreme conseguenze; Mussolini, infatti, già nel 1919 affermerà che “l’imperialismo è la legge eterna e immutabile della vita” e farà dell’espansionismo l’unico punto chiaro di tutta l’ideologia fascista.

Possiamo affermare che se le avventure coloniali fasciste nel Corno d’Africa coroneranno il sogno imperiale covato dai Savoia sin dall’Unità, le conseguenze decreteranno l’epilogo sia del Regno d’Italia che del Fascismo: i costi militari della campagna d’Etiopia renderanno il Regio Esercito più debole, e perciò quasi impreparato alla guerra totale scatenata da Hitler. I costi finanziari – che fecero rischiare la bancarotta all’intero “Impero Italiano” – resero l’Italia incapace di riarmarsi degnamente, di rifornire le proprie truppe e spinsero il Paese sempre più verso la Germania nazista così come i costi diplomatici. Mussolini, infatti, passò dal promuovere il Patto a Quattro del 1933 con il quale voleva farsi garante dell’equilibrio di potenza europeo in barba a Francia, Inghilterra e Germania a dover passare ad una politica autarchica dopo la campagna d’Etiopia. Una nota divertente è che l’Etiopia, abbandonata da tutti i propri alleati europei prima dell’invasione italiana, fu rifornita di mezzi e finanze proprio dalla Germania nazista in funzione antitaliana.

Del Boca (1976, 879) riassume perfettamente l’esperienza coloniale dell’Italia liberale e la lega, indissolubilmente, a quella fascista: “È stato detto e ripetuto, fino alla noia, che il colonialismo italiano dell’epoca liberale è stato «diverso», cioè più umano, più generoso, più illuminato. […] In periodo di pace, ha utilizzato su scala generale il lavoro coatto, ha legalizzato il furto delle migliori terre, ha abolito lo schiavismo solo sulla carta, ha conservato come strumento di disciplina la fustigazione, ha mantenuto di proposito le popolazioni indigene nella più completa ignoranza. In periodo di guerra o durante le ribellioni in Eritrea e Somalia, ha usato tutte le armi del terrore: dalle deportazioni delle popolazioni alle fucilazioni di massa, dall’incendio dei villaggi alle deportazioni sistematiche, dalla profanazione delle chiese all’eliminazione dei preti copti rei di patriottismo, dalla strategia della terra bruciata all’esercizio di penitenziari letali come quelli di Nocra e di Assab. Se si escludono i gas asfissianti [corsivo mio, usati durante il fascismo, N.d.A.], non ancora in uso, i mezzi e i metodi impiegati da Baldissera [il comandante militare precedente a Baratieri, N.d.A.] e da Baratieri non sono diversi da quelli utilizzati da Badoglio e da Graziani”.

Bibliografia

Del Boca, Angelo. 1976. Gli italiani in Africa Orientale. Dall’Unità alla Marcia su Roma. Volume 1. Roma: Laterza.

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