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NOTA

Nel 1995 la fotografia era analogica e questo significava che il fotografo doveva decidere tutto a priori: quale pellicola usare, negativo o diapositiva, colore o bianco e nero… Scelsi per questi scatti una pellicola innovativa in bianco e nero che aveva la caratteristica, all’epoca rivoluzionaria, di svilupparsi negli sviluppi dei negativi a colori. Assicurava una straordinaria nitidezza e una grande capacità di adattamento (la latitudine di posa). Le immagini che vedete sono state realizzate utilizzando due rullini in bianco e nero e altrettanti di diapositive per un totale di 144 scatti a disposizione – in media meno di dieci al giorno per la durata del viaggio

Dopo qualche anno, non troppi a dire il vero, l’avveniristica pellicola cominciò a ricoprirsi di strani puntini neri, probabilmente muffe che attaccano i negativi. A nulla valse le grandi attenzioni che avevo riservato loro per conservarli correttamente. Mi venne in aiuto la tecnologia digitale che nel frattempo si era imposta fra lo scetticismo di chi, allora come oggi, pensa che si stava meglio quando si stava peggio

Personalmente non mi sono mai posto il problema. Ho attraversato e conosciuto a fondo i due mondi dell’analogico e del digitale e questo mi ha permesso di avere una  grande consapevolezza degli attuali processi tecnologici. Il nostro mestiere resta sempre lo stesso e l’incanto della fotografia continua.

BIRMANIA

 

Queste immagini sono state raccolte da Andrea a Rangoon, Mandalay e Pagan verso la metà di aprile 1995 durante la nostra Pasqua e il Thingyan, i giorni di festa che precedono l’anno nuovo secondo il calendario birmano.

Dopo le elezioni del 1990, le prime veramente libere in Birmania dopo quasi 30 anni, il governo dei militari rifiutò di trasferire il potere al partito di Aung San Suu Kyi, che aveva riportato una schiacciante vittoria. Molti personaggi politici, compresa la leader, vennero arrestati e altri furono costretti all’esilio. Per qualche anno il paese restò sostanzialmente isolato e rimasero chiuse anche le università, temute dai dittatori come culle del dissenso.

Dopo una cauta apertura dei confini, Andrea e i tre amici che lo accompagnavano erano fra i primi a ottenere un visto di ingresso in Birmania.

La situazione apparve subito molto grave. La persona che li accolse in casa a Rangoon per i primi giorni, una signora benestante, disse loro che era appena stata a Singapore per farsi curare. Dopo quasi cinque anni di chiusura delle università, spiegava, nella capitale scarseggiavano i medici e di quelli disponibili non ci si poteva più fidare.

Alla timida apertura ai turisti – dettata principalmente dal bisogno di valuta straniera – non corrispondeva alcun allentamento dell’oppressione dei militari contro la popolazione. A Mandalay Andrea e i suoi amici videro dozzine di uomini estrarre sabbia per l’edilizia dalle enormi isole in mezzo all’Irawady. Era lavoro forzato. Gli uomini venivano prelevati a casa dai soldati e costretti a giornate di lavoro massacrante senza ricevere compenso.

Dopo il periodo di isolamento, la curiosità della gente verso i quattro italiani era molto intensa, soprattutto da parte dei bambini. Sempre a Mandalay, questo slancio prese una piega sorprendente. Un ragazzo si avvicinò al gruppo e parlando apprese che uno di loro insegnava all’università. Si allontanò sulla sua bici e dopo qualche minuto tornò con un invito.

«Le andrebbe di fare lezione questo pomeriggio?»

«Lezione? E dove se le università sono chiuse»

«Il nostro prof di letteratura inglese tiene un corso clandestino a casa sua. Ci vanno gli studenti che, come me, sono davvero appassionati. È un bravo insegnante»

«Formidabile»

«Allora viene?»

«Certo!»

A metà pomeriggio i quattro amici si trovarono così a casa dell’intrepido e testardo prof di letteratura inglese. La classe, composta da una dozzina di studenti, ascoltò con grande attenzione il docente italiano parlare di comunicazione interculturale. Gli studenti erano ben preparati, il dibattito alla fine fu tutt’altro che banale. Il giovane insegnante non avrebbe potuto preparare altro nelle poche ore che erano trascorse dall’invito, ma dopo tanti anni si può dire che il tema era davvero azzeccato.

Qualche giorno dopo, non lontano da Pagan, un piccolo imprenditore raccontò ad Andrea e ai suoi amici una storia che aprì loro gli occhi. Li aveva portati a incontrare le sue operaie che, sedute nel patio interno del basso edificio, producevano e decoravano secondo una tecnica antica ciotole e piatti in midollino laccato.

Era un uomo pratico e non era contento della situazione. «Prima arriva il soldato. Ti dà il bastone sulla testa e tu devi pagare. Poi arriva il monaco. Ti dà la scodella sulla testa e tu devi pagare. Alla fine a noi non resta nulla».

La storia del monaco che ti dà le botte in testa è inventata solo per metà. I monaci che girano tutto il giorno con la scodella nera in mano non chiedono e non pretendono, eppure non saltano mai un pasto. Sono numerosissimi. Un birmano su dieci fa il monaco. Si tratta di oltre mezzo milione di individui improduttivi che sottraggono il loro sostentamento a una delle popolazioni più povere della terra.

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