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ARTIGIANI DEL NOSTRO DESTINO

«Uno spettro si aggira per l’Europa». Così iniziava un famoso libello del 1848. Un solo libro, composto da poco più di sessanta pagine, fece esplodere il mondo: l’idea di una nuova umanità scavava tra le radici del vecchio sistema, per eroderle e farle marcire. Un terremoto scuoteva l’era dei liberalismi, apparentemente immodificabili, quando il mondo ruotava attorno a princìpi irrinunciabili, dove nessuno avrebbe potuto immaginare che una penna potesse sommergere del suo inchiostro ogni terra emersa, facendola sprofondare nell’inquietudine dell’ignoto.

Questo è quello che la mente dell’uomo è in grado di generare, se dall’idea si passa all’atto compiuto, se l’essere umano trasferisce sulla tela quel dipinto che prima era soltanto un’idea dell’artista, se quella scultura diviene tale dopo aver oltrepassato il traguardo che porta l’idea dalla mente alla mano dell’artigiano, che possiede quella che Richard Sennet ha definito “coscienza materiale”(1). Siamo di fronte all’unità tra pensieri e azione, al riunirsi tra l’animal laborans e l’homo faber di Hannah Arendt, cioè tra l’essere umano che semplicemente compie un’azione di fatica e l’essere umano che crea qualcosa di finito partendo dall’idea, qualcosa di unico e diverso da prima, qualcosa che esisteva solo nella sua mente e che ora tutti possono osservare come concreto ed esistente nella realtà. L’atto della creazione nasce da un’idea e si trasforma in realtà, modificando i parametri dell’esistente e riadattandoli ad un’opera concreta che ora possiamo osservare, toccare, sentire, ma che prima non c’era.

Non è solamente il passaggio che compie lo scrittore dalla mente al braccio e da questo alla mano che impugna una penna, a cambiare la realtà. Assistiamo all’idea che produce eventi a cascata che modificano, non solo quelle pagine che prima risultavano vergini, ma anche la realtà circostante, non solo prossima ma a chilometri e chilometri di distanza. Quel libello venne stampato in 200 lingue e fu la causa di stravolgimenti sociali in tutto il globo, che annientarono intere società, distruggendo vecchie forme di Stato per sostituirle con nuove forme di Governo, talvolta brutali, talvolta liberatrici. Se è vera l’affermazione secondo la quale «la gente investe pensieri sulle cose che è in grado di cambiare» (2), allora è vera anche quella che un’idea può cambiare il mondo e che l’essere umano, nella storia della sua evoluzione, è riuscito a passare da essere un semplice animal laborans a homo faber, artigiano del proprio destino, un destino che non fosse solo individuale, ma anche collettivo.

Se al tempo di Aristotele il teatro era divenuto lo spazio per attori specializzati, in quello arcaico la differenza tra chi recitava e tra chi osservava non era così netta: spettatore e attore convivevano sulla scena, alternando il canto all’ascolto, la performance all’osservazione, in un avvicendarsi continuo tra vedere e fare, tra l’«occhio della mente» ipotizzato dal classicista Myles Burnyeat e quello di chi compie un’azione. Nell’artigiano questa separazione non avviene: egli produce una comunicazione continua tra mente e mano, tra idea e materia. Lo stesso Platone, nonostante la convinzione che le idee trascendessero l’inchiostro con il quale erano scritte, usava chiamare gli artigiani con il nome di demourgoi, esseri divini con capacità generatrici. Anche il poeta, a suo modo, può essere considerato un artigiano, perché trasforma un’idea in versi con le sole due forze che gli competono: la penna e l’immaginazione. Così potremmo dire del musicista, dell’orafo o del pittore, così anche dello scrittore o del poeta.

L’immaginazione è capace di vedere oltre ciò che vediamo con gli occhi, «oltre la materialità» per dirla con Sartre (3). Quel libello ha saputo, al pari di molti altri testi che hanno cambiato la storia, innescare quel processo che ha portato l’idea a trasfigurarsi in concretezza, ed è diventato lo strumento per modificare la realtà, così come lo scalpello per lo scultore e la tempera per il pittore: dall’immaginazione alla realtà. Un processo di questa natura può essere collettivo, quando ad un’opera partecipano più artisti, più artigiani, più figure professionali. Ma ogni opera d’arte per darsi questa definizione deve avere un osservatore che la riconosca come tale: un oggetto diventa arte nel momento in cui essa viene condivisa, mostrata all’esterno. Antonio Stradivari rivoluzionò il suono del violino perché la sua opera defluì dalla sua bottega, per uscire in strada e trovare chi avrebbe apprezzato quel manufatto e le sue prestazioni. La stessa cosa possiamo dire delle opere orafe di Benvenuto Cellini, tra i primi ad unire il disegno all’oro, riconosciuto in ambienti molto distanti dal suo laboratorio: a riprova vi fu la famosa saliera d’oro immaginata e prodotta nel 1543 per il re di Francia. Né Stradivari, né Cellini sarebbero quel che sono diventati se là fuori non ci fossero stati osservatori e ammiratori delle loro notevoli capacità. Così nemmeno Marx ed Engles sarebbero quel che sono stati se, all’epoca intere comunità di intellettuali in tutto il mondo non fossero state ad analizzare e accogliere le idee appuntate in quel piccolo libello, assieme a masse enormi di esseri umani sfruttati dal vincente sistema di produzione industriale.

Il legame immaginazione-opera-osservatore è dirimente: senza immaginazione non c’è opera e senza opera non c’è osservatore. Ma si può affermare anche l’esatto contrario: senza osservatore non vi è opera e l’immaginazione rimane chiusa in sé stessa o incatenata per sempre ad un’opera mai esposta o pubblicata. È qui che subentrano questioni che attingono all’epoca nella quale alcune opere vengono generate, al contesto culturale e sociale nel quale quell’immaginazione può trovare terreno fertile per la produzione di un’opera, che sia da parte di un artigiano o di un artista. Se vi è il contesto adatto di giusti osservatori, allora quell’opera può farsi strada: essere immaginata, prodotta e infine esposta. Oggi il Manifesto del Partito Comunista non verrebbe nemmeno pubblicato, non  perché lo scenario mondiale abbia sconfitto la diseguaglianze tra gli esseri umani o superato per sempre lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, ma perché nella società attuale la maggioranza dei popoli vive nella sola dimensione produttiva del profitto e del consumo. 

Nati, cresciuti ed educati mono-dimensionalmente (4) gli esseri umani che abitano questo tempo, non solo sono sprovvisti della conoscenza di valide alternative al sistema attuale, ma sono del tutto contrari al fatto che esso cambi (Atman Journal – Rivista Online). E questo è un elemento fondante di ogni tipo di totalitarismo fascista. A questo proposito, così scrisse Herbert Marcuse: «In virtù della quale è organizzata la propria base tecnologica, la società contemporanea tende ad essere totalitaria; non soltanto una forma di governo e di dominio politico producono il totalitarismo, ma pure un sistema specifico di produzione e distribuzione, sistema che può benissimo essere compatibile con un pluralismo di partiti, di giornali, di poteri controbilanciantisi». (5) L’abbrutimento culturale che una società fintamente liberale comporta finisce per appiattire i gusti, omologare le idee, narcotizzare la consapevolezza. «Quell’omologazione che il fascismo non è riuscito ad ottenere, il potere di oggi, cioè il potere della società dei consumi, riesce ad ottenere perfettamente». (6)

Può allora esserci oggi un contesto socio-culturale di osservatori capaci di accogliere opere che puntano al cambiamento complessivo della società? Ma ancora prima, questa società riesce a contemplare l’esistenza di artigiani e artisti del proprio tempo, capaci dapprima di immaginare e successivamente di generare opere rivoluzionarie? È plausibile ritrovarsi nel tempo di nuovi demourgoi in grado di generare nuova cultura e di gettare i semi di un diverso e inedito modello di comunità e dunque di convivenza? Uscire dalla mono-dimensionalità nella quale siamo obbligati a relazionarci richiede una certa dose di immaginazione, di determinazione e di sana follia. Oggi, all’alba del disastro climatico e al preludio della fine della civiltà come l’abbiamo conosciuta, c’è il grande interrogativo che dovremmo avere il coraggio di sottoporre a noi stessi: abbiamo davvero la necessità dell’imminente grande trauma per vedere l’alternativa? Sarà sufficiente aprire gli occhi appena in tempo e diventare noi stessi artigiani del nostro destino, facendo sprofondare il mondo in un nuovo fiume d’inchiostro, per salvarlo, per salvarci.

(1) Richard Sennet, “The craftsman”, Yale University Press, 2008

(2) Richard Sennet, “The craftsman”, Yale University Press, 2008

(3) Jean-Paul Sartre, L’immaginario, Conclusione, Einaudi, 2020

(4) Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, 1999

(5) Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, 1999

(6) Pier Paolo Pasolini, intervista Rai, 1974, Teche.rai.it

PRESENTAZIONE AUTORE

Autore e regista del documentario “Nel Ventre di Milano”, 2021, videoclip musicali per artisti italiani e internazionali. Collabora con Ātman dal 2022. Ha pubblicato il saggio “Foibe, quello che non si dice”, 2009. Ha collaborato con: Edizioni Underground Milano, Museo MAXXI Roma, Fiera Editoria Indipendente Milano, Confindustria Food/Turismo Lecce come Art Advisor, Mastgood Milano come Art advisor, quotidiano La Rinascita Roma come pubblicista, Il Manifesto come pubblicista, tra cui intervista a Margherita Hack, Teti Editore Milano come scrittore e pubblicista. Produttore e regista del documentario intitolato “Sudditalia”, 2023, che affronta i temi odierni della Questione Meridionale in Italia.

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