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ANTONIETTA, MADDALENA E DELIA

È il 6 maggio del 1938 e l’Italia fascista si appresta a celebrare la visita a Roma di Adolf Hitler. Il Führer incontra il Duce per cementare la disgraziata alleanza che condurrà, di lì a poco, l’Italia e l’intera Europa (anzi, l’intero pianeta) al disastro. Anche la famiglia Tiberi si sta preparando per l’adunata: si mettono le divise, raccolgono i gagliardetti con i simboli del fascismo; tutti, meno Antonietta, la moglie di Emanuele, che resta a casa a riordinare e a pulire, dopo essere stata la prima ad alzarsi. Ha svegliato il marito, che si lamenta per essere stato svegliato, e che poi la sgrida per non averlo chiamato prima. È stata Antonietta a stirare le uniformi di tutta la famiglia, a preparare la colazione e il pranzo al sacco. Quello che ha fatto non va bene al marito, i figli sono di cattivo umore e nessuno la ringrazia. È la famiglia fascista, Emanuele è l’uomo fascista, un fervente sostenitore della dittatura, Antonietta è la donna di quegli anni. Naturalmente si tratta dell’inizio di Una giornata particolare, un film di Ettore Scola del 1977, interpretato da Sophia Loren (Antonietta) e Marcello Mastroianni, nel ruolo di Gabriele, un vicino di casa, anch’egli vittima del maschilismo fascista, un ex-radiocronista licenziato dalla EIAR per la sua omosessualità. I due passano insieme una “giornata particolare”, una parentesi libera per la donna e un momento di ottimismo per l’uomo. Quando Gabriele viene portato via dai carabinieri per essere condotto al confino, Antonietta ritorna alla vita di sempre, raggiungendo il marito-padrone nel letto, intenzionato a generare il settimo figlio per ottenere il premio del Duce per le famiglie numerose e a chiamarlo – naturalmente – Adolfo.

Tredici anni dopo (siamo nel 1951), – ma anche ventisei anni prima, dipende dal punto di vista – ci viene presentata una donna che vive in un seminterrato, dalle cui finestre si vede un esterno squallido da dove si può anche sbirciare dentro. Maddalena Cecconi, la donna, lavora come una pazza facendo iniezioni a domicilio per raggranellare più soldi possibile: vuole che la sua figlioletta di 5 anni o poco più diventi un’attrice, l’ha portata ad un provino, e sta spendendo troppi soldi per lezioni e vestiti. Appare chiaro che sta riponendo tutte le sue speranze per il futuro nella figlia. Il marito di Maddalena, Spartaco, è spazientito, insiste a dire che la moglie ha perso la testa, che è testarda e ossessionata, mentre lui sta cercando, da persona “pratica” di mettere da parte i soldi necessari per costruire una nuova casa, per uscire dal buco in cui vive la famiglia Cecconi. Si tratta di Bellissima, un film di Luchino Visconti del 1951 con Anna Magnani nel ruolo di Maddalena. Una sera la coppia ha un litigio violento, uno scontro fisico così formalizzato nelle immagini del film da sembrare quasi un balletto. Maddalena, che ha urlato e fatto accorrere tutto il vicinato, confessa candidamente di aver fatto la melodrammatica a bella posta per mettere Spartaco in imbarazzo (o per salvarsi dalle botte?). D’altra parte il melodramma, nella sua doppia accezione di eccesso drammatico e di opera lirica è la corda principale del mondo di Luchino Visconti, così come la ricostruzione del periodo fascista con quel forte accento politicizzato è nelle corde di Ettore Scola.

Se ho voluto ricordare questi due film, pur così diversi tra loro, è perché qualcosa in comune ce l’hanno, e – quel che più importa – hanno qualcosa in comune con C’è ancora domani, il film di Paola Cortellesi uscito pochi mesi fa che ha superato i record d’incasso in Italia nel 2023 e che sta cominciando a mietere simili successi anche all’estero. Sappiamo persino che Lady Gaga (addirittura…) vuole acquistare i diritti della sceneggiatura per farne una versione nordamericana. Vuol dire che stiamo parlando di un film che evidentemente tocca delle corde sensibili e importanti, che raccoglie il consenso di tutti (o quasi). Naturalmente, questo è un grande pregio, ma allo stesso tempo è anche un motivo di riflessione. 

Prima di entrare nel merito degli aspetti ideologici, che secondo me sono la chiave per comprendere appieno il successo del film, vorrei soffermarmi su come Paola Cortellesi usi delle strategie formali molto accattivanti. La Cortellesi è riuscita ad armonizzare quasi sempre il contesto storico con tecniche filmiche contemporanee, rendendo l’intero film un prodotto vicino alla sensibilità del nostro tempo, considerando tutti i suoi aspetti, tanto visivi quanto sonori. Il primo e più visibile omaggio alla tradizione del cinema italiano (Cortellesi dimostra di conoscerlo bene) è costituita dalla scelta del bianco e nero, un evidente riferimento alla stagione del neorealismo, e non solo a Bellissima: non poteva essere altrimenti, e la Cortellesi lo ha capito, perché la storia di Delia si svolge esattamente in quel periodo, nel maggio del 1946, nel pieno del neorealismo. Tuttavia, quello del 2023 non è e non può essere il bianco e nero dei film dell’immediato dopoguerra, è un bianco e nero digitale, riconoscibile come tale dai contrasti forti e dalla definizione dei contorni, soprattutto nelle scene all’aperto. E qui inizia la “armonizzazione”, tra la tradizione a cui rendere omaggio e la contemporaneità.

Il secondo elemento visibile, infatti, ci porta lontano dal neorealismo e dagli anni ’40. Una delle poetiche principali del neorealismo era l’invisibilità della macchina da presa: i fatti parlano da sé, l’intervento del regista deve essere tenuto al minimo. In C’è ancora domani Paola Cortellesi muove invece la macchina da presa molto spesso, anche all’interno della stessa inquadratura: se ne ha un impatto immediato proprio all’inizio, durante i titoli di testa, quando Delia esce di casa per la sua giornata di impegni. Vediamo una lunghissima carrellata da destra a sinistra, che la segue lungo la strada, presentandoci anche una sorta di “fauna” popolare. E il contrasto è ancora più marcato a causa del ralenti usato per tutta la sequenza; e ancora di più se ascoltiamo la colonna sonora che fa da sfondo: è il brano “Calvin” del 1998 dei Jon Spencer Blues Explosion. Nella colonna sonora del film non ci sono canzoni dell’epoca; “Aprite le finestre” (all’inizio) è del 1956 e “Perdoniamoci” (in un raro momento di pace tra Delia e Ivano) è del 1960. La canzone “Mamma” è del 1939, ed è canticchiata da Delia sempre all’inizio, l’unica che appartiene al mondo del film, al 1946. Sono entrato in questi dettagli perché la scelta dei brani musicali che non appartengono al mondo del film è molto importante per la definizione delle atmosfere. Cortellesi usa Fabio Concato e Lucio Dalla, e – nel bel finale – Daniele Silvestri con “A bocca chiusa”; i Big Gigantic con “The Little Things”; l’hip-hop degli OutKast. I brani musicali sottolineano la “contemporaneità” degli eventi, quasi a dire che le traversie di Delia potrebbero svolgersi anche in periodi più recenti. Ora vorrei tornare di nuovo ai movimenti della macchina da presa, per segnalare una tecnica usata in maniera esagerata in una sequenza importante, un uso completamente sconosciuto fino ad un paio di decenni fa, e che purtroppo viene troppo spesso abusato: il giro a 360 gradi intorno ad una coppia in un momento di tenerezza. La macchina della Cortellesi lo fa addirittura tre-quattro volte nella scena della liquirizia che Nino (Vinicio Marchioni), la vecchia fiamma e la “possibile alternativa”, offre a Delia, con i due che sorridono mostrando i denti anneriti.

Insomma, se non avete visto i film degli anni ’40 potete pensare a tutta una serie di strategie originali, e se li avete visti potete notare la voglia di staccarsene, pur rendendo loro omaggio. Tutto ciò può risultare estremamente accattivante, anche perché è fatto in maniera intelligente, direi anche colta, senza appesantire, se non raramente, gli aspetti visivi del film.

C’è ancora domani, tuttavia, ha un profondo ed importante contenuto ideologico, del quale non si può non tenere conto, e che costituisce il motivo del successo del film. Per essere accettati dal maggior numero di persone possibili bisogna evitare di attribuire le vessazioni subite da Delia, le umiliazioni, le botte, a tempi più recenti. Ettore Scola con Una giornata particolare ci ha voluto dire che dietro la sottomissione e l’infelicità di Antonietta c’è il fascismo, il culto della personalità e della guerra, il maschilismo dell’uomo “forte”, la retorica della famiglia numerosa. Il personaggio interpretato da Mastroianni ne è ulteriore conferma. Nel film della Cortellesi non v’è nulla di questo contesto storico: è stato scelto – per altri motivi, fors’anche validi – di “dimenticare” il fascismo. Benissimo, si dirà, non è tempo di ideologie, e poi l’oppressione della donna appartiene a tutte le epoche, appartiene alle famiglie di sinistra come a quelle di destra e alle famiglie di centro. Anche questo è vero. Ma i mariti delle “sorelle maggiori” di Delia, Antonietta e Maddalena non differiscono molto da Ivano, la cui cattiveria è però quasi caricaturale, come a rassicurare e a scagionare chi non picchia la propria compagna ed eppure la opprime, facendolo sentire “giusto” e indignato per i comportamenti di Ivano. La denuncia del film si allarga, giunge a colpire tutti i maschi che zittiscono le loro mogli, come il padre di Giulio; che sono riluttanti a firmare le bolle di consegna del materiale alla merceria in assenza di un “marito” che non c’è; che, come l’ombrellaio, non hanno dubbi sul salario di un principiante incompetente, pagato più di Delia (“è omo”…); e giunge a colpire anche le nuove generazioni attraverso le intenzioni di Giulio nei confronti del futuro di Marcella.

Il punto è esattamente questo: il film identifica la liberazione di Delia (e di tutte le donne) nel diritto al voto, grande, grandissima conquista, certo. Sappiamo che con le elezioni del 1946, ma ancor più con quelle del 18 aprile 1948 in Italia è giunta al potere una classe politica legata alle dinamiche della Guerra Fredda, ma soprattutto legata all’egemonia ancora fortissima della Chiesa, che per decenni ha negato alle donne diritti fondamentali, quali il divorzio e l’aborto. Ci sono voluti quasi trent’anni per avere finalmente le leggi che hanno cambiato radicalmente il ruolo e la posizione della donna nella società italiana. Solo nel 1975 (trent’anni dopo gli eventi del film) la riforma del diritto di famiglia ha cancellato le odiose parole della potestà maritale contenute nella legislazione precedente, figlia del regime fascista. E allora vuol dire che il diritto di voto ottenuto nel 1946 (ma un’intera generazione di italiani, maschi e femmine, non aveva la minima idea di cosa fosse un voto, sotto il tallone del fascismo), importante quanto si vuole, ma difficile da rappresentare come il simbolo esclusivo dell’emancipazione femminile.

C’è ancora domani è un film comunque importante, una ventata di energie nuove nel cinema italiano di questi anni, un panorama dove i pensieri scarseggiano, e riesce a parlare a tutti; ma lo fa indistintamente, perché parla anche a coloro che, nel migliore dei casi, nella loro vita sociale, politica e personale non hanno mai alzato un dito (o addirittura hanno attivamente lavorato contro) a favore della donna e della sua posizione nella società italiana degli ultimi 80 anni. Paola Cortellesi ha avuto il grande merito di ricordarci che il patriarcato viene da lontano; tuttavia, avendo voluto parlare anche a loro, può aver fatto un po’ di confusione.

Paola Cortellesi ha avuto il grande merito di ricordarci che il patriarcato viene da lontano; tuttavia, avendo voluto parlare anche agli uomini, può aver creato un po’ di confusione. È come se si trattasse di un mancato chiarimento, di un’argomentazione che si è dimenticata di esplicitare. Viene costruito un finale in crescendo: Delia ha perduto il foglietto e lo spettatore viene indotto a credere che quel pezzo di carta, letto da Ivano e raccolto da Marcella, sia la prova di una possibile fuga, di una decisione di vita che finalmente la separi dalle umiliazioni e dalle percosse. Tanto più che nel film non si è mai vista o sentita alcuna significativa obiezione di Ivano contro il voto, e francamente non si capisce la sua evidente ira. Nessuno può avere dubbi su quanto sia stato importante il diritto di voto, ma c’è uno scarto assai visibile tra questa conquista civile e la mentalità patriarcale di un’intera società, della quale sono state responsabili generazioni di italiani. Non c’è ombra di dubbio: il brano “A bocca chiusa”, mimato da tutte le donne al seggio elettorale è un pezzo di cinema estremamente intenso, ma ci costringe a chiedere: “che cosa ci ha voluto dire Paola Cortellesi?”

AUTORE

Carlo Coen vive in Canada, ma proviene da esperienze vissute in diversi paesi. Nato e cresciuto in Italia fino all’inizio degli anni Ottanta, ha lavorato in India, Australia e Canada negli Istituti Italiani di Cultura. Il cinema e lo studio delle sue fascinazioni lo hanno guidato da sempre: è stato programmatore di cineclub romani, di festival in India e in Canada e la sua dissertazione di dottorato è dedicata al cinema di genere degli anni Sessanta e Settanta. Carlo ha scritto articoli dedicati a Rossellini, Rosi, Martone, Argento, Fellini e ha recentemente curato un volume di saggi sul cinema sperimentale italiano.

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