
I TIMIDI E I PRUDENTI
Negli Stati Uniti d’America dell’800, successivamente all’indipendenza dalla Gran Bretagna dichiarata il 4 luglio 1776, c’era un tema che divideva la popolazione e i politici dell’epoca: la schiavitù.
Resa legale fin dal 1641 in Massachusetts, essa si espanse nel paese e nel periodo in questione era fondamentale per l’economia degli stati del sud. Infatti, essi erano legati all’agricoltura e alla coltivazione di cotone, così sfruttavano il lavoro di quegli afroamericani che si trovavano in uno stato di subordinazione totale. Agli schiavi veniva proibito di imparare a leggere e a scrivere, così vivevano nell’ignoranza e nell’incapacità di ribellarsi a un trattamento così disumano. Il nord del paese era invece legato alle attività manifatturiere e traeva meno vantaggio dalla schiavitù. Inoltre, iniziava a imporsi nella società un’avversione morale verso questa pratica che riduceva gli esseri umani a merce di scambio. Crebbero infatti le voci di dissenso che si fecero sempre più insistenti nella seconda metà del XIX secolo.
Una delle argomentazioni degli abolizionisti era legata proprio alla dichiarazione d’indipendenza americana. Infatti, nel preambolo della stessa, si legge: “Consideriamo verità evidenti che tutti gli uomini sono creati eguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di certi Diritti inalienabili, che tra questi vi siano la Vita, la Libertà ed il Perseguimento della Felicità”. La dichiarazione di indipendenza fu il primo passo della Rivoluzione Americana che portò poi alla nascita degli Stati Uniti come stato sovrano e indipendente.
La disputa sulla schiavitù, che divise profondamente nord e sud successivamente all’indipendenza del paese, provocò la guerra civile che ebbe luogo tra il 1861 e il 1865 e si concluse con l’abolizione della stessa. Non c’è abolizionista più famoso dell’afroamericano Frederick Douglass: ideologo e influente uomo politico, abile oratore, polemista raffinato e autore di una celebre autobiografia. Nato schiavo nel 1818 a Tuckahoe, nel Maryland, fuggì con l’aiuto della compagna, Anna Murray, che sposerà appena giunto a New York come primo atto liberatorio per mostrare al mondo, attraverso il certificato di matrimonio, una sua personale dichiarazione di indipendenza. Dalla povertà assoluta Douglass si ritrovò nella condizione di possedere una casa e il passaggio dalla schiavitù alla libertà diventerà il tema chiave della sua opera.
In un famoso discorso tenuto a New York, alla Corinthian Hall di Rochester, il 5 luglio 1852, Douglass spiegò che cosa rappresentava il 4 luglio per lo schiavo americano.
La sua magistrale capacità oratoria, l’utilizzo mirato delle parole, si possono ritrovare in alcuni passaggi del discorso: “Oggi, ai fini di questa celebrazione, è ancora il 4 luglio. È l’anniversario della vostra Indipendenza Nazionale e della vostra libertà politica”. L’utilizzo del pronome possessivo qui si politicizza: sono gli uomini bianchi, proprietari terrieri e proprietari di schiavi. Douglass non si identifica con essi, predicatori della libertà e della democrazia, che considerano altri uomini merce di scambio.
Ancora proseguì, parlando della rivoluzione americana: “Sentendosi trattati duramente e ingiustamente dal governo, i vostri padri, in quanto corretti e uomini di spirito, cercarono sinceramente soddisfazione. Presentarono petizioni e manifestarono; lo fecero in modo decoroso, rispettoso e leale. Questo, però, non diede nessun risultato. Si videro trattati con indifferenza sovrana, freddezza e disprezzo. Ma perseverarono. Non erano uomini da tirarsi indietro. […] L’oppressione rende folle anche un saggio. I vostri padri erano saggi e, visto che non erano impazziti, diventarono insofferenti sotto quel giogo”.
Da qui nacque l’idea di diventare uno Stato indipendente, senza le limitazioni economiche e politiche che comportava il dominio britannico. Douglass proseguì spiegando come buona parte della popolazione non fosse pronta a un cambiamento di tale portata: “Fu un’idea sconvolgente, molto più di quanto appare a noi, a questa distanza di tempo. I timidi e i prudenti (come erano definiti) di quel giorno, ne furono, ovviamente, sconvolti e allarmati. Persone del genere vivevano allora, avevano vissuto prima e, probabilmente, avranno sempre un posto in questo pianeta; e il loro atteggiamento, in relazione a qualsiasi grande cambiamento può essere previsto con l’identica precisione con la quale si calcola il corso delle stelle. Costoro odiano tutti i cambiamenti.”
Il tono di Douglass, andando avanti a parlare, si inasprì. La causa dei padri fondatori riprende in qualche modo quella degli schiavi, che quasi 100 anni dopo si trovavano ancora nella stessa condizione di oppressione: “Concittadini, scusatemi, permettetemi di chiedere: perché sono chiamato io a parlare qui oggi? Che cosa ho io, o hanno quelli che rappresento, a che fare con la vostra indipendenza nazionale? I grandi principi della libertà politica e della giustizia naturale, incarnati in quella Dichiarazione d’indipendenza, sono stati estesi a noi? Lo dico con un triste senso di differenza tra di noi. Non sono all’interno del recinto di questo glorioso anniversario! I privilegi di cui oggi godete non sono gustati in comune. Il grande patrimonio di giustizia, libertà, prosperità e indipendenza, lasciato in eredità dai vostri padri, è condiviso da voi, ma non da me. La luce del sole che vi ha portato vita e salute, a me ha portato cicatrici e morte. Questo 4 luglio è vostro, non mio. Voi potete festeggiare, io devo piangere.”
Grazie a Federick Douglass, “la voce degli schiavi senza voce” che duecento anni fa fece un discorso che ancora oggi non solo è attuale ma, provoca, in chi lo legge, un turbine di emozioni. In qualche modo invidio chi, il 4 luglio 1852 alla Corinthian Hall di Rochester, New York, era testimone di una sinfonia in tre movimenti, come venne definito il discorso dallo storico David Blight.
Frederick Douglass, Democrazia e schiavitù. Gli Stati Uniti e la violenza razziale, Ibis, Como-Pavia, 2020