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SCRITTI PIRATI SULLA ZOOTECNICA

Il tema del cambiamento climatico è oramai di dominio pubblico, ma le cause reali e le conseguenze del disastro ambientale non sono state delineate a sufficienza e non sono ancora note a gran parte della popolazione. Quali sono le principali cause del cambiamento climatico? Perché ancora oggi nel 2022 le persone non prestano l’attenzione che merita questo tema? Ci sarà una vita per le generazioni future? Ci aspettano veramente guerre climatiche in futuro?

L’attenzione mediatica e pubblica molto spesso devia verso il problema dell’inquinamento dei mezzi di trasporto, l’uso della bicicletta e molto altro. In altre parole, l’interesse vira solo sui combustibili fossili come: carbone, gas naturali, petrolio, sabbie bituminose, argilla petrolifera ecc. Con ciò non sostengo che questi non siano problemi importanti per la risoluzione di molte problematiche in questione, ma tendiamo a nascondere la radice del problema, la causa principale di della più grande estinzione di massa dai tempi dei dinosauri.

La causa principale del degrado ambientale è l’industria zootecnica. La zootecnica è la scienza che si occupa dell’evoluzione, della produzione, del “miglioramento razionale” (come piace dire a loro) dello sfruttamento degli animali domestici utili all’alimentazione dell’uomo. Si basa quindi sulla meccanizzazione dell’allevamento degli animali e di tutte le problematiche che questo eccessivo addomesticamento comporta. Secondo uno studio condotto dal Worldwatch Institute nel 2013: “le industrie della carne e del latte producono più gas di quelli emessi complessivamente da automobili, camion, treni, barche e aerei. Il metano prodotto dai bovini è 86 volte superiore all’anidride carbonica prodotta da tutti i veicoli”.

L’industria zootecnica è responsabile per il 51% del cambiamento climatico prodotto dall’uomo. Risulta, quindi, essere la causa principale delle emissioni di gas serra. Inoltre, secondo un report condotto della Banca Mondiale, la zootecnica è responsabile per il 30% del consumo mondiale d’acqua, è responsabile del 91% della distruzione della foresta Amazzonica, le industrie del settore occupano il 45% della superficie terrestre e sono la causa principale dell’estinzione delle specie viventi e della deforestazione.

La distruzione degli habitat avviene, quindi, per la produzione di pascoli per i bovini e per far spazio a monoculture di soia (in gran parte OGM) con cui cibare il bestiame. La foresta fluviale tropicale localizzata nella fascia equatoriale della Terra, e comprendente gran parte del Sud America, America Centrale, dell’Africa equatoriale, dell’Asia e di numerose isole del Pacifico, è la zona con la massima biodiversità, dato che ospitano da sola circa la metà delle specie animali e vegetali terrestri. La Food and Agriculture Organizations of United Nations (FAO) stima che la perdita netta della foresta fluviale tropicale sia intorno ai 7,3 milioni di ettari l’anno, pari a ventimila ettari al giorno. L’Amazzonia perde 25.276 chilometri quadrati di foresta ogni giorno, un’area poco inferiore a quella della Sicilia. Ogni giorno perdiamo cento specie di piante, animali e insetti e tutto per la produzione di pascoli e colture di soia. Molte agenzie ambientaliste come Green Peace puntano il dito contro le monocolture di olio di palma, le quali contribuiscono al processo di deforestazione, ma niente in confronto al ruolo svolto dagli allevamenti intensivi. Fino al 2013 le colture da olio di palma hanno provocato la distruzione di dieci milioni di ettari, contro i cinquantacinque milioni di ettari devastati dall’industria zootecnica.

Distruggiamo interi ecosistemi ogni secondo per soddisfare questa fame sfrenata che abbiamo. Infatti, produciamo cibo per 12 miliardi di persone. L’agrobusiness, perciò, contribuisce ogni secondo alla distruzione di mezzo ettaro di foresta pluviale.Oggi nel mondo sono presenti 1,5 miliardi di bovini da allevamento (Bos taurus), i quali per mantenersi in “vita” (perché quella non è vita) consumano 170 miliardi di litri d’acqua al giorno e mangiano 61 miliardi di chili di cibo ogni giorno. Al confronto, noi esseri umani (Homo sapiens) consumiamo 20 miliardi di litri d’acqua al giorno nel mondo e mangiamo 10 miliardi di chili di cibo. Di questi bovini oltre mezzo miliardo vive in terreni dove un tempo vivevano erbivori selvatici. Oltre ai bovini: i suini, i polli, i conigli, le galline e le altre numerosissime specie che ogni anno si aggiungono alla lista a seconda del luogo, comprendono i 70 miliardi di animali allevati in tutto mondo. Numeri mastodontici che ci permettono di comprendere meglio la quantità di carne di cui da un secolo a questa parte produciamo e consumiamo affamati, a livelli senza precedenti. Il problema è catastrofico se pensiamo che da qualche tempo anche la Cina sta cominciando a consumare carne quanto una dieta nordamericana. La Cina conta 1,4 miliardi di persone, circa il venti per cento della popolazione mondiale.

Un altro fattore strettamente correlato all’industria zootecnica è il problema derivante dagli escrementi prodotti da questi animali. Il bestiame mondiale produce rifiuti 130 volte maggiori rispetti a quelli prodotti dall’intera popolazione umana. Solo negli Stati Uniti vengono prodotti 50 chilogrammi di letame bovino al secondo, tutto ciò contribuisce a inquinare le falde acquifereeil terreno circostante, provocando numerosissime malattie tra gli abitanti, come molte persone che vivono in North Carolina possono testimoniare. Gli escrementi animali prodotti in un anno solamente negli Stati Uniti sono sufficienti a ricoprire contemporaneamente ogni metro quadrato di San Francisco, New York, Tokyo, Parigi, New Delhi, Berlino, Hong Kong, Londra, Rio de Janeiro, Bali, Costa Rica, Danimarca e l’Umbria. E dove finisce la maggior parte di questi escrementi e di quelli di tutti gli altri Paesi del mondo? Nell’Oceano. Queste conseguenze divennero sempre più note agli ecologisti, e in particolari agli oceanografi durante gli anni Settanta, tanto da coniare il termine di “Dead zones”, ovvero la creazione e l’espansione di intere zone costiere prive di vita. Qualsiasi argomento sull’inquinamento marino non può prendere in esame solo i problemi dovuti all’industria ittica, alla plastica, ma deve sempre partire in maniera schietta da discussioni sugli allevamenti intensivi praticata a terra. Anche se i Governi reazionari e le associazioni ambientaliste rivolgeranno la loro attenzione sul problema della plastica e dell’industria ittica, i quali certamente contribuiscono alla distruzione di interi ecosistemi marini, ciò non distoglie la nostra attenzione dalla radice del problema. Mangiamo troppa carne!

Negli allevamenti intensivi il pascolo per una singola mucca va da mezzo ettaro a un ettaro, mentre in condizioni naturali una singola mucca avrebbe bisogno di un minimo di dieci ettari di pascolo. Per questo esempio sto prendendo in considerazione il fatto che una mucca si cibi brucando erba, e che quindi necessiti di un ambiente circostante altamente rigoglioso.

Dovremmo distruggere intere città e zone di montagna e tutto per far posto a pascoli per allevamenti sostenibili. Capite da soli che il problema non è riconducibile esclusivamente al modo in cui alleviamo la carne, che sia sostenibile o meno, ma nel fatto che dobbiamo ridurre drasticamente il nostro consumo di carne se come specie vogliamo avere ancora un futuro su questo pianeta.

Inoltre, un recente studio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ha analizzato ottocento casi in dieci Paesi diversi trovando una correlazione tra carne lavorata e cancro. Nel report dell’OMS si legge che “il consumo giornaliero di cinquanta grammi di carne lavorata aumenta il rischio di cancro al colon rettale del 18%, mentre il consumo giornaliero di latticini può far aumentare la possibilità di cancro alla prostata del 34%”. Inoltre, l’Organizzazione Mondiale della Sanità classifica la carne lavorata come cancerogeno di Gruppo-1. Le sostanze vengono classificate in quattro gruppi. Il Gruppo-1 contiene i cancerogeni umani certi e comprende al momento della pubblicazione centoventi agenti, tra cui: l’alcool, il benzene, la naftalina, plutonio o sigarette. Dobbiamo prendere coscienza del fatto che sia un problema globale, come è normale che sia così arrivati a questo punto di sviluppo tecnologico, molti problemi grazie a questo processo di globalizzazione sono diventati mondiali, e quindi richiedo una soluzione internazionale. Viaggiamo verso i nove miliardi di persone prima che la curva di crescita cominci a stabilizzarsi, i cinesi hanno cominciato a consumare carne quanto gli americani e ad aggiungere specie mai viste prima.

Come riporta David Quammen, al mercato di Chatou, nella città di Canton: “avevo visto cicogne, gabbiani, gru, cervi alligatori, coccodrilli, cinghiali, cani procioni, scoiattoli volanti, vari tipi di serpenti, tartarughe stellate dalla Birmania, oltre a cani e gatti domestici […] si potevano comprare anche gatti leopardo, muntjak (un genere di piccoli cervi), donnole siberiane, ratti del bambù cinese, lucertole, rospi e tutta una lunga lista di rettili, anfibi e mammiferi, tra cui due specie di pipistrelli frugivori. Ah, ovviamente non mancavano gli uccelli”. Questo mercato di Canton all’inizio degli anni Duemila divenne uno dei più grandi mercati di tutta la Cina, specializzato in mammiferi, rane, tartarughe protette e serpenti, non dovrebbe sorprenderci un gatto fritto.  La questione della nostra dieta è strettamente correlata alla crisi ambientale chestiamo attuando. Anche un Paese come l’Italia, in cui la nostra dieta e il nostro modo di cucinare è parte fondamentale della nostra cultura, la dieta del consumo non ci ha lasciato indifferenti. La stragrande maggioranza degli italiani si ciba di carne lavorata ricca di antibiotici, e di pesce proveniente dalla Spagna e dalla Scozia e fatto passare come prodotto nostrano. Nonostante la politica reazionaria dell’Unione Europea, in merito alla questione climatica, i problemi continuano ad aumentare anche in Europa.

L ’Unione Europea dipende in larga misura dalle importazioni agricole, sola la Cina importa di più. Nel 2019, l’UE ha importato un quinto dei suoi raccolti e un decimo delle carni e dei prodotti lattiero-caseari, rispettivamente 118 e 55 mega tonnellate. Ciò consente ai Paesi membri di coltivare in maniera meno intensiva, importando prodotti alimentari da Stati con leggi ambientali del tutto inesistenti. Infatti, questi accordi commerciali sono stati firmati con Paesi del tutto estranei alle logiche della sostenibilità come: Brasile, Paraguay, Uruguay e Malaysia. Tutto ciò rientra nella politica reazionaria europea, poiché esternalizzando il danno ambientale verso i Paesi in via di sviluppo, sarà più semplice per i nostri politicanti fascisti prendersi il merito per le proprie “politiche verdi”. Ogni anno l’Unione Europea importa dal Brasile soia proveniente da territori di recente deforestazione e carne bovina per un valore di cinquecento milioni di dollari. Come riportato da un recente articolo pubblicato sulla rivista Nature, nell’ottobre 2020, alcune direttive all’interno del Green Deal ignorano la deforestazione del passato, considerando i terreni bonificati solo a partire dal 2008, ciò significa che le aziende agricole create sui siti delle ex foreste prima di quella data possono essere considerate “sostenibili”. Questi siti includono nove milioni di ettari di foresta, Amazzonica e del Cerrado che è stata deforestata dal 1990 al 2008. Sempre secondo Nature: “ciò sarebbe stato fatto in virtù della crescente domanda dell’Unione Europea di semi oleosi per l’alimentazione animale e il biodisel, che è raddoppiata tra il 1986 e il 2016.” Il Brasile rappresenta il maggior esportatore agricolo per l’Unione Europea, fornendo in gran parte soia e olio di palma.

Gli studi di Richard Fuchs e Calum Brown, ricercatori ambientali, hanno contribuito a delucidare le ipocrisie in campo ecologico da parte dell’Unione Europea. Difatti, le pratiche commerciali agricole non consentite dalla legge europea in materia di esportazioni, non valgono per quanto riguardano le importazioni. Ad esempio, gli organismi geneticamente modificati sono stati severamente limitati nell’agricoltura dell’Unione Europea dal 1999. Tuttavia, l’Europa importa semi di soia ogm e mais dal Brasile, dall’Argentina, dal Canada e dagli Stati Uniti d’America. Questo cambiamento così profondo, poiché il cibo è parte vitale della nostra esistenza,richiede uno sforzo ancora maggiore e una responsabilità da parte di tutti gli individui, i quali dovranno cominciare ad organizzarsi sin da subito in modo razionale e internazionale. Il consumo di carne e di pesce dovrà diventare un lusso per le persone, abbassando la domanda di carne rimarranno solo poche realtà locali. Negli anni i pascoli ritorneranno foreste rigogliose ricche di vegetazione e specie animali. Nel giro di qualche decennio ridurremmo la quantità di metano presente nell’aria e le generazioni successive potranno constatare con i loro occhi i progressi compiuti nei confronti della natura. Una dieta vegetariana contiene tutte le proteine e le vitamine necessarie, e lo spazio occupato da un orto risulta essere notevolmente minore rispetto a quello di un qualsiasi allevamento. Inoltre, il minor consumo di carne migliorerà notevolmente la nostra salute e tutto ciò sarà di notevole importanza perché ci permetterà di riprendere quel rapporto intimo con la natura che abbiamo perso da un po’ di tempo.

Quando attuiamo qualsiasi analisi sul cambiamento climatico non possiamo non partire dalla nostra alimentazione. Questo significa andare all’origine dei nostri problemi. Secoli fa non avremmo mai dovuto affrontare una crisi del genere, ma la fine del capitalismo sta coincidendo con la fine del mondo, e dobbiamo prenderne atto se vogliamo sopravvivere come specie. La corsa incessante verso l’idea di civiltà e di sviluppo ci sta man a mano allontanando dalla natura, ma essa è più forte di noi e ogni giorno ce lo ricorda. Ci aspetta una prova molto ardua, cambiare le abitudini alimentari di miliardi di persone non sarà semplice, ma non possiamo più nasconderci, dobbiamo affrontarlo ed entrare in un sogno non ancora sognato.

 

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